Intervista a Don Alberto Varinelli
Abstract
L’articolo riporta un’intervista a Don Alberto Varinelli, un prete attivo nella diocesi di Bergamo, che riflette su vari aspetti della Chiesa, della fede e dell’educazione. Egli sottolinea l’importanza di partire dalla concretezza della vita delle persone, anziché dalle teorie astratte, e di coniugare il Vangelo con la vita quotidiana. Varinelli ritiene che il pericolo per la fede sia la superficialità e l’indifferenza e che la Chiesa debba affrontare le questioni della modernità senza creare divisioni interne.
Egli parla della sinodalità come di una sfida, sottolineando che il dialogo e il confronto all’interno della Chiesa sono fondamentali per affrontare le questioni attuali. La visione di Varinelli sulla sinodalità riguarda l’ascolto attivo di voci diverse e la ricerca di soluzioni pratiche basate sulla conoscenza e sulla collaborazione.
Riguardo all’educazione, Varinelli esorta a passare dalla teoria alla pratica, affrontando le questioni educative in modo serio e coinvolgendo esperti competenti. Egli sottolinea l’importanza del dialogo e della costruzione di reti educative che coinvolgano la famiglia, la scuola, la comunità e altre istituzioni.
Infine, Varinelli immagina come Gesù metterebbe in scena il Vangelo oggi: seduto in mezzo alla gente, ascoltando, dialogando e affrontando i problemi con franchezza. Egli sottolinea la necessità per la Chiesa di lavorare insieme e affrontare le questioni complesse in modo completo, evitando la superficialità e cercando soluzioni a lungo termine.
Intervista a Don Alberto Varinelli
Di lui sappiamo quasi tutto perché è un prete social, da 7 anni scrive sul santalessandro.org con già più di 250 articoli in attivo; di recente anche su labarcaeilmare.it ; esperto in tematiche educative e vita di oratorio racconta della prossimità di un Dio verso l’uomo, cioè di noi e le fatiche di sentirci fratelli, mentre sulle questioni di Chiesa è noto il suo appello a «Padre Georg». 39enne, Don Alberto Varinelli è una voce molto stimolante, ha l’effetto della «luce del sole che attraversa la polvere». Dal 2015 è vicario parrocchiale a Grumello del Monte e Telgate. A settembre, il 10 saluta i parrocchiani a Grumello, il 17 a Telgate e il 24 giunge a Seriate per un nuovo mandato pastorale.
Benarrivato. Nei tuoi scritti prendi spunto dalle situazioni di ciò che ami e ciò che detesti e le tieni insieme o «ricami vita» con ago e filo di ciò che credi. Detesti la «parte molle della Chiesa», ami le «questioni di senso», un po’ meno il «buon senso» perché non ti basta. Tu scrivi perché ritieni che siamo tutti in pericolo?
Più che in pericolo siamo tutti in cammino, ed è il motivo per cui io quando scrivo parto sempre dal concreto. In realtà, la scelta di partire dal concreto viene dalla mia vita. Io non sono professore di niente, ho fatto qualche studio, quelli tipici dei preti in seminario con gli studi propri appunto del percorso di teologia, ho chiesto poi al vescovo di poter approfondire le dinamiche educative frequentando la facoltà di Scienze d’Educazione dal 2012 al 2015, poi ho conseguito la laurea triennale e lì mi sono fermato, in quanto poi appunto nel 2015 alla parrocchia di Telgate, dove ero già curato dal 2010, si è aggiunta anche la parrocchia di Grumello del Monte e quindi con due oratori continuare gli studi era impossibile. Proprio anche per questa vena educativa, che è quella che mi sembra mi caratterizzi di più, io parto sempre dal concreto, quindi io non parto mai dalle teorie, non sono un docente, non parto dall’astratto, parto dal concreto, anche perché quello che io ho vissuto in questi 13 anni da prete è l’estrema concretezza della vita della gente e di due oratori. E quindi è chiaro che io leggo le questioni proprie della vita della Chiesa, non alla luce di grandi principi o di alta teologia, che pure mi piace e per quanto è possibile cerco anche di leggere e di studiare, ma guardo la vita della gente e quindi mi piace molto andare a vedere come il Vangelo si coniuga con il concreto della vita della gente, anche perché se il Vangelo non viene vissuto rischia di essere una parola che è un grande dono ma che rischia di morire, perché è la famosa questione della scissione, della polarizzazione tra la fede e la vita, o la fede parla alla vita e quindi la vita si lascia plasmare dalla fede, altrimenti si rischia che creandosi dei percorsi paralleli che non si incontrano, a un certo punto a perderci è evidentemente la fede, perché vivere dobbiamo vivere, la fede è una scelta, se fede e vita non si incontrano la fede la perdiamo e quindi io parto sempre proprio dal concreto. Quindi credo che, non so se siamo in pericolo, io credo che la fede sia sempre in pericolo se vogliamo, possiamo dire anche così, e il pericolo non è esterno, io credo che il pericolo della fede per noi sia la superficialità. Infatti, in alcune delle cose che ho letto e anche contestato nei miei articoletti che ho scritto in questi anni, è che ci poniamo tanti problemi che secondo me non sono così gravi, cioè non è un problema di un’altra religione che avanza piuttosto che… neanche l’ateismo mi fa così paura, anche perché gli atei veri che teorizzano l’ateismo non ne ho visti. Il vero pericolo sta dentro di noi perché è la questione dell’irrilevanza della fede, cioè la superficialità. E questa è una cosa che si vede a partire appunto dal concreto della nostra vita. Ancora in tanti, anche se non tutti chiedono il battesimo per i figli, poi però dove stia la Chiesa e quello che la Chiesa insegna, non si vede. A decine fanno ancora la Cresima. Io quest’anno nella parrocchia di Grumello ho fatto 70 Cresime, qui a Telgate comunque ne abbiamo fatte 34, che sono numeri importanti, poi però ritorna sempre la domanda: ma adesso che cammino di fede avranno questi ragazzi? E sappiamo tutti che cosa succede dopo la cresima, ma… e quindi ecco, mi piace partire dalla concretezza e mi piace sottolineare il grande rischio che abbiamo che è quello della superficialità e dell’indifferenza. Poi, ecco, aggiungo questa cosa qui della lettera che è diventata famosa e che è partita non come uno scherzo, perché per carità non si scherza su alcune cose, ma l’ho scritta su questo piccolissimo blog sul quale scrivo con degli amici, che è La Barca e il Mare, convintissimo che l’avrebbero letto le solite 200 persone che lo leggono, nel senso che poi essendo un blog nato per chiacchierare di cose di Chiesa e senza delle grosse pretese, avevo detto a Don Alberto Carrara: «guarda scrivo una lettera a Georg, tanto non la leggerà nessuno », poi ha avuto questa risonanza enorme, non lo so perché, non so per quali motivi e quindi poi appunto spesso vengo associato a quella lettera, nella quale peraltro mi ritrovo pienamente quindi qualcuno mi ha chiesto se la riscriverei, e la riscriverei assolutamente, nel senso che ogni tentativo, sia esso fatto dall’ultima persona che c’è nella chiesa, sia esso fatto con maggior responsabilità da un cardinale di un vescovo, di creare divisione nella chiesa è un problema e questo non perché nella Chiesa non si possa parlare, perché io teorizzo sempre anche in quello che scrivo che bisogna parlare, bisogna dire quello che nella Chiesa non va e quello che fa parte di un passato incapace ormai di dialogare con il presente e quindi bisogna rimettersi su alcune questioni a capire un attimo l’uomo di oggi e a vedere anche come Chiesa se effettivamente stiamo proclamando il Vangelo all’uomo di oggi e non a un uomo che non c’è più, però senza creare divisione nella Chiesa. Quindi ecco, quando qualcuno qualche anno fa, alla luce degli articoli, mi ha definito un progressista, mi ha dato abbastanza fastidio, nel senso che se è progressismo inteso come ti piace fare quello controcorrente e dire alcune cose che notoriamente la Chiesa respinge, non mi sta bene. Se l’idea è “guardiamo quello che è l’uomo di oggi” e non cambiamo per piacere all’uomo di oggi, ma perché effettivamente alcune prese di posizione ci accorgiamo che storicamente erano motivate, ma oggi non lo sono più, allora sono d’accordo, nel senso che la Chiesa, e su questo mi piace citare sempre il cardinale Martini, rischia di essere secoli indietro rispetto alla vita dell’uomo e questo non va bene. Quindi occorre assolutamente che gli studi anche teologici e la vita della chiesa guardi all’uomo di oggi e quindi è necessario oggi essere seri sul cammino di fede, altrimenti è una sterile ripetizione di quello che si è sempre fatto ma il Papa stesso in Evangelii Gaudium ci dice che il criterio del “si è sempre fatto così” non è un buon criterio di Chiesa.
Noi abbiamo sempre bisogno di ridirci il senso di quello che facciamo. Faccio un esempio più chiaro prendendolo dalla catechesi: dove è scritto che la catechesi debba farsi tutte le settimane con il programma usando schede e la dottrina intesa come la si intendeva una volta? Che l’elemento dottrinale sia fondamentale, assolutamente sì, perché quando io insegno in prima media e mi sento dire che gli apostoli facevano i calciatori, è segno che evidentemente sull’ABC della fede non ci siamo. Una volta c’era il ruolo dei nonni che suppliva la mancanza dell’ABC della fede, adesso questo mi sembra sia venuto meno e davvero anche a livello di scuola media, anche di 11-12 anni che hanno fatto già un po’ di catechesi, arrivano a volte in prima media che sulla ABC della conoscenza del Vangelo e non parlo dell’Antico Testamento, che è già bello se si sa che esista, sanno veramente poco, quindi l’elemento dottrinale e di conoscenza dei contenuti fondamentali della fede … pienamente d’accordo. Però la catechesi va rivista anche con altri ritmi, anche con altre esperienze, perché una fede che si nutra soltanto di sapere è davvero a rischio, nel senso che esiste un sapere della fede che è fondamentale, ma non basta, perché io la fede appunto devo farla dialogare con la vita e quindi bisogna provare a pensare una catechesi che parla alla vita della gente e che aiuti anche i ragazzi a vedere le dinamiche proprie del Vangelo nella vita. Poi, la ricetta non ce l’abbiamo, ma provare qualcosa senza avere paura di tutto, come se non si facesse la lezione di Catechesi fosse la fine del mondo, ecco, credo che sia una delle paure da superare il prima possibile.
Qual è la tua prospettiva sulla centralità di Gesù Cristo nel messaggio del Vangelo e come ritieni che dovrebbe essere comunicato in modo adeguato alle sfide e alle dinamiche dell’attualità?
Direi che vale la pena di credere nel Vangelo. Quindi, secondo me, il nucleo centrale è Gesù Cristo. Cioè, siamo salvi in Gesù Cristo, questa è la questione centrale. Ma dire questo oggi, va detto evidentemente con delle modalità diverse rispetto a ieri. Quindi, facendo riferimento appunto alla catechesi, noi dobbiamo tornare, secondo me, all’essenziale del Vangelo e a dire innanzitutto, appunto, che la salvezza è in Gesù Cristo e non in altro, perché questo è il fondamento della nostra fede, ma dobbiamo farlo costantemente in dialogo con la cultura, con gli studi, con la vita concreta dell’uomo di oggi. Quindi questo, secondo me, è il passaggio fondamentale, che tra l’altro non è nulla di originale, cioè Papa Giovanni XXIII fece il Concilio dicendo che non dobbiamo portare delle novità da un punto di vista dottrinale, ma dobbiamo trovare delle modalità nuove per dire quello che abbiamo sempre detto. Quello che noi abbiamo da dire è Gesù Cristo, cioè nella Bibbia c’è già tutto, ma il come dirlo è da rivedere, perché l’uomo di oggi non è quello di ieri.
Per qualcuno l’atto di educare è un atto di violenza, di «potere». Supponiamo che adesso tu arrivi e una persona – o più persone, un gruppo – ti vengano addosso, «vestiti da amici, ma con le loro prediche, i loro ricatti ideologici, sfilando i loro slogan» pur di averti e tu ti senta minacciato… . Com’è, invece, il «potere» di Gesù?
Quello che si vede in modo evidente nel Vangelo è che Gesù ha sempre avuto la disponibilità a sedersi, a parlare con tutti e quindi io credo che questo sia lo stile. Quindi non lo so se mi sentirei minacciato. Vedrei una prospettiva diversa dalla mia e quando io vedo la prospettiva che è radicalmente diversa dalla mia, ci si siede, se ne parla. Questo è il passaggio. Perché nel momento in cui io mi sentissi minacciato vorrebbe dire che io ho la verità e chi arriva con una modalità diversa dalla mia ha il contrario della verità. E non è così. Nel senso che, quando uno porta una prospettiva radicalmente diversa, ci si siede, ci si confronta e si va a vedere i punti di forza, perché poi anche il mio modo di vedere ha le sue criticità, evidentemente. E quindi io credo che il vivere il Vangelo significhi sedersi, confrontarsi e insieme camminare. È un pochino lo stile che ho sempre cercato di avere. Poi, ci sono riuscito sempre? Assolutamente no, anche in questi primi 13 anni da prete nei due oratori che ho avuto. Ci si siede, se ne parla, ci si confronta, poi a volte si dà ragione all’altro, a volte si rimane sulle proprie posizioni. Il dialogo, se è serio, non prevede che ci sia uno dei due che si convince che abbia ragione l’altro. A volte l’altro si convince che ho ragione io. A volte può anche capitare che io dica «caspita, su questa questione qui aveva proprio ragione lui e io avevo sbagliato». A volte io andrò avanti a pensarla a mio modo e l’altro andrà avanti a pensarla al suo, ma non per questo siamo nemici. Possiamo essere amici o lavorare insieme, anche se la pensiamo diversamente? Questa è una delle grandi sfide, secondo me, che noi abbiamo nella Chiesa. A volte io vedo su questo troppa fatica. “O la pensi come me o sei mio nemico”. Non è così … ci si confronta, se ne parla, si cammina insieme. Perché, o davvero – e questo è un principio educativo fondamentale – le diversità diventano ricchezza, o se diventano motivo di scontro … dallo scontro nasce solo scontro e di buono sicuramente non nasce nulla. Non significa che non possono esserci conflitti e che dal conflitto possa nascere qualcosa di buono se però abitato correttamente. Se, nel conflitto le questioni che contano vengono tirate fuori con il rispetto verso l’altro, nasce un confronto serio, vero e a 360 gradi. Allora, io credo che anche la conflittualità di interpretazioni e di visioni sia buona. Il problema del conflitto c’è quando, o ci sono dei non detti e quindi poi non si è sinceri nel confronto, oppure quando è la lite per la lite. Questa è una delle cose che proprio io non accetto: quando uno vuole andare a litigare ma per il gusto di litigare non perché voglia portare una prospettiva da discutere. Io credo che lo stile che, per quel poco che posso capire del Vangelo, sia quello di cercare di dialogare con tutti e di cercare insieme come camminare. Dialogo e critica costruttiva. Il Concilio Vaticano II ha dato tanto su questo, alzando il livello al dialogo interconfessionale, al dialogo ecumenico. Ma, prima di questo grande impegno, giustissimo, mi pongo una domanda concreta: «come posso andare a parlare con il protestante se non so dialogare con un mio parrocchiano?». Voglio dire che il dialogo parte all’interno della nostra stessa comunità cristiana e io credo che in questa fase della storia della Chiesa il dialogo fondamentale che va portato avanti accanto agli altri è il dialogo al nostro interno perché la tensione, che c’è ed è palpabile, tra chi si considera tradizionalista e chi – a volte magari anche esagerando – è progressista, dice che all’interno della Chiesa cattolica ci sono tensioni molto forti e se non le risolviamo credo che sia un grosso problema.
Quindi, sicuramente il Concilio Vaticano II ci ha insegnato tanto. Mi permetto anche di aggiungere il magistero dei Papi, soprattutto di Papa Francesco, che ha indicato nel dialogo una linea decisiva. Su questo già da Evangelii gaudium in poi vedo che non esiste fondamentalmente un discorso che fa dove non appelli al dialogo e quindi credo che se il Papa, con una visione della Chiesa a 360 gradi, insiste su questo aspetto, qualcosa voglia dire.
Si riflette anche sulla sinodalità?
Su tutto. La sinodalità è una questione complicatissima. Io poi, mi sono ripromesso, se e quando avrò tempo, di provare a studiarla un po’ di più. Ecco un’altra delle cose che mi sentirete dire a Seriate. Non mi piace tendenzialmente parlare di quello che non conosco e, non mi piace molto, a volte, trovarmi a parlare con chi, palesemente, non conosce una cosa ma vorrebbe insegnarla. Quindi questa è una delle questioni sulle quali io faccio fatica. Ed è per questo che, lo ammetto senza problemi, non avendo avuto ancora il tempo di leggermi qualcosa di un po’ serio sulla sinodalità, mi freno, però una delle cose che sono evidenti è che c’è sinodalità se siamo capaci di parlarci. Io ho scritto qualcosina quando il Papa ha chiesto ai vescovi italiani il Sinodo e ho scritto «io spero che non sia un contentino al Papa », cioè al limitarsi a delle belle schede nelle diocesi per poi produrre un bellissimo documento teologico che dice tutto e niente nello stesso tempo. Son capaci tutti. Il Papa è contento perché il Sinodo è stato fatto, ma cosa cambia? O il dialogo è serio ed è davvero sinodalità perché viene ascoltata la voce di tutti – poi però, alla luce della teoria, ci son delle pratiche, dei cambiamenti nella Chiesa sulla base di quella che è la vita effettiva della Chiesa italiana, altrimenti se non cambia mai niente va benissimo … stiamo per anni a fare le diverse fasi di un cammino sinodale, uscirà un documento meraviglioso scritto dai migliori teologi e poi? Noi abbiamo delle questioni serie da prendere in mano, sulle quali poi dovranno anche esserci delle decisioni e quindi credo sia importante. Avendo una formazione da educatore, so che teoria e prassi devono sempre andare insieme, ma non è sempre così. In educazione c’è, per esempio, una questione emblematica sull’inclusione con fiumi d’inchiostro, ma poi, alla fine, che cosa si fa? Si prenda il bambino con disabilità: si dice che si è attenti a lui perché gli si mette l’insegnante di sostegno e va fuori dalla classe. Ma dov’è l’inclusione? L’inclusione l’ha fatta don Milani. Don Milani nella sua stanzetta aveva un banchettino al centro che era quello di Marcellino, un bambino disabile di Barbiana. Finché non capiva lui la lezione non andava avanti. Poi, con questo non sto dicendo che bisogna prendere il modello Don Milani e copiarlo. Gli farei torto perché lui per primo, prima di morire voleva chiudere la scuola dicendo «è irreplicabile». E aveva ragione. Però sicuramente lui ha dato una visione di cos’è l’inclusione, cioè l’ha messa. Non se ne potranno usare gli stessi metodi, perché il periodo, a Barbiana, chiesa fiorentina degli anni fine 50 inizio 60 non è quello di una città italiana di oggi. Però ci sono dei principi che, alla luce delle acquisizioni di oggi, vanno presi in mano in quanto il rischio è quello di scrivere fiumi di inchiostro bellissimi sia nella Chiesa che fuori dalla Chiesa su questioni importanti, ma non arrivare mai a niente. Un altro esempio. Io sono un po’ stanco di sentir dire che il problema sono i genitori. Uno sente i dibattiti televisivi, sente nomi anche significativi da Galimberti a Crepet … ma lo sappiamo tutti. Se io prendo un genitore che non sta riuscendo minimamente a educare il figlio penso che a livello teorico queste cose me le dica: il problema di oggi è che noi genitori siamo amici dei figli, non diamo più il principio di autorità, eccetera… e alla fine cosa cambia? O su queste questioni si instaura un dialogo con le famiglie e tra le famiglie e ricostruiamo quella rete educativa che ieri c’era e oggi non c’è più (la famiglia che dialoga con la scuola, con gli enti del territorio, con gli enti sportivi, con l’oratorio) e si fa educazione insieme, oppure andremo avanti a scrivere dei principi ineccepibili da un punto di vista teorico ma che non cambieranno niente. E quindi, io credo che questi siano un po’ i passaggi grossi che che ci aspettano.
Immagina di essere un regista. Come metteresti in scena Gesù oggi?
La scena, così come la interpreterei, la prenderei ancora dal Vangelo. Vedrei Gesù seduto in mezzo alle persone. Siamo ancora lì. Non so cosa farebbe Gesù oggi, però se devo provare ad annunciare il Vangelo, si metterebbe lì con tutti quelli che sono gli attori protagonisti possibili della questione educativa e proverebbe ad ascoltare e chiedere cosa possiamo fare insieme.
Poi Gesù è schietto. La scena dei mercanti nel tempio lo fa vedere bene. Se c’è da arrabbiarsi si arrabbia. E anche molto forte nel suo nel suo modo, se penso anche alle parole che ha rivolto a Pietro quando Pietro pensava di insegnarGli chi lui dovesse essere … «va dietro a me, Satana ». Non è andato per il sottile. Del resto, questo è quello che deve fare la Chiesa. A volte anche essere forti nel dire “no questa cosa non va fatta” è necessario, assolutamente necessario. E torniamo alla questione della polarizzazione eccessiva tra il tradizionalismo e il progressismo … non vanno bene né l’una né l’altra prospettiva: il tradizionalismo perché nega la storia di oggi, non parla con essa perché non è quella di ieri e ci si arrocca sulle posizioni di ieri si adora la modalità di vivere la Chiesa di ieri standosene lì senza parlare con l’uomo di oggi. Ma attenzione, perché anche il progressismo è problematico. Vedo il progressismo esasperato con quel dire di sì a tutto, anche all’interno della Chiesa, che poi alla fine fa dissolvere la Chiesa. Ma, il mondo di oggi. cosa se ne fa di una Chiesa che dice di sì a tutto? Per cosa? due applausi? Ma se uno a me dice sempre di sì a priori, diventa irrilevante. Una Chiesa che dovesse sempre dire di sì a ogni tipo di istanza non è fedele al Vangelo.
Metodo fondamentale è – alla luce della fede, del Vangelo, della Tradizione vera, autentica della Chiesa – analizzare le questioni di oggi e sulle necessità per fare dei passi avanti le si fa, mentre sulle questioni su cui è necessario rimanere fermi, si rimane fermi. Giustamente si potrebbe replicare su quali sono queste questioni. Beh, le si studia insieme. Io vedo come questione aperta quella del diaconato alle donne da quello che sono riuscito a leggere.
Già la questione del presbiterato alle donne mi sembra invece più uno slogan del teologo che vuole sembrare aperto, mentre è da approfondire partendo dall’origine.
Una delle cose che vedo come problematica nella Chiesa di oggi, ossia in quello quello che vedo e ascolto dalla gente è il rischio di parlare di argomenti “di pancia” e di “secondo me”, ma non è che la vita è fatta di “secondo me”, ma occorre analizzare con serietà le questioni, occorre sentire persone competenti, poi da lì ci si fa un’idea e si capisce che cosa fare. Quindi, stanno venendo avanti molte questioni, quella del “gender” per esempio, questioni di livello etico, bioetico. Sono questioni che non si affrontano con il “secondo me”. Ci sono esperti, le abbiamo anche in diocesi, che si sono formati con studi e su conoscenze scientifiche e su campo, capaci di affrontare dibattiti e approfondimenti. Ma noi vogliamo dire sempre la nostra. Dovremmo avere l’umiltà di chiedere, fare domande a chi ne sa più di noi. Credo che questa debba essere la via da seguire anche dentro le nostre parrocchie.
Come si porta avanti una parrocchia?
O i preti che ci sono in una parrocchia dialogano, si confrontano, si scontrano anche su modalità diverse di vedere le cose, ma poi insieme trovano una via e la percorrono, altrimenti … certo che ciascuno può fare il suo pezzettino, pensandola come vuole con il rischio, però si creano forti tensioni. Se, invece, nella Chiesa si lavora insieme si dà tanta serenità anche alla gente. È una delle cose fondamentali che noi possiamo fare: permettere alle persone di camminare serenamente senza trascinarla nelle tensioni tra di noi. Non possiamo permetterci di adagiarci alla superficialità né per ciò che riguarda le “polarizzazioni”, né nell’affrontare questioni importanti della comunità. Pensiamo alla vita della parrocchia. Come si gestisce il gruppo degli adolescenti? Come si costruisce e come deve lavorare un équipe educativa di Oratorio? Come si gestiscono gli spazi dell’Oratorio, di una struttura come il Centro pastorale a Paderno? Non sono questioni da poco, cioè occorre ragionarci dandosi un senso. Ecco, una cosa che a me a volte fa paura, anche nel piccolo delle nostre comunità, è che sembra che tutte le questioni si possono buttare lì in qualche modo. Le questioni vanno analizzate in modo serio. I tempi cambiano con una velocità tale – penso a come cambiano i ragazzi nella loro crescita veloce – che non è detto che le proposte che faccio oggi funzionino tra due anni. Ammettendo di sapere praticamente nulla di Seriate, mi faccio questa domanda: come si può gestire un Centro come quello di Paderno di Seriate? Lo si ragionerà tutti insieme e non con dei criteri stabiliti dai preti. Il prete arriva, conosce, ascolta la gente, lavora con gli altri preti poi si vedrà se c’è qualcosa da aggiungere, se c’è qualcosa da togliere. Sarà un cammino da fare insieme, prendendosi del tempo. Quando io parlo di superficialità faccio riferimento a questo. A volte pensiamo di avere le soluzioni pronte per ogni buco, per ogni questione … ma, una situazione complessa come la vita di una parrocchia … immaginiamoci Seriate, la parrocchia più grande della diocesi. Sono dell’idea che il pensare di dare una risposta semplice a questioni complesse è un grave errore. Se la situazione è complessa deve essere comunque completa anche la sua soluzione perché altrimenti si rischia la superficialità. Poi sul fatto che non si debba complicare ulteriormente le cose sono d’accordo. Però neanche dire “ma sì dai”, buttiamo via qualcosa che va sempre bene. No, questo no.
Un giorno, un architetto disse che il fatto fondamentale è che l’uomo raggiunga un certo grado di umanità che può trasmettere agli altri. «Non c’è né tecnica, né norma, nulla … c’è l’uomo, sempre, impegnato profondamente proprio come uomo, con tutti i suoi sentimenti … se io non mi sento disposto verso gli altri fò delle cose di una ingenuità assoluta. Io credo che siamo in tanti a cercarci, si ha bisogno l’uno dell’altro. Bisogna cominciare a dircelo. Bisogna cominciare, cioè, a comunicare». Che consiglio daresti a un pessimista, a chi vede, cioè, gli esseri umani come una tragedia, con l’inferno che sale?
Direi che c’è il Paradiso, innanzitutto! Lo dico in battuta, ma ci credo. La vita è troppo bella per pensare di non viverla e per pensare di qualificarla subito come un qualcosa di negativo, di cui magari anche privarsi il prima possibile. Poi, è chiaro che le affermazioni che facciamo escono da quello che viviamo. Se io guardo evidentemente alla mia di vita perché non ho altra scelta che partire da qui, per rispondere a questa domanda mi vien da dire :non sai cosa ti perdi? Comincia a viverla la vita e a starci dentro bene, a costruire dei legami buoni. Poi è chiaro che ci sono dei momenti difficili dove ti sembra che ci sia l’inferno, ma al momento, grazie a Dio mi sembra che siano più i momenti che mi richiamano di più al Paradiso, che non all’Inferno.
Io credo che se proviamo a metterci ciascuno del nostro, con un po’ di umiltà, possiamo dire sì, la vita è bella, pur con tutte le difficoltà che ci sono. Di drammi in questi anni ne ho visti. Io ho fatto i funerali di un mio animatore del Cre che è morto di malattia a soli 21 anni. Ho fatto il funerale di volontari appena andati in pensione; sul più bello di impegnarsi ancora di più in Oratorio arriva la malattia e questo ti costringe a farti delle domande. Ma anche a fronte di tanta sofferenza, non mi viene da dire che la vita è brutta e un inferno incombe. Anzi, vedendo loro e come hanno vissuto fino all’ultimo quella vita che avrebbero meritato di vivere fino a 100 anni e invece l’hanno vissuta fino a 60 o fino a 21, mi vien da dire: «Val la pena fino all’ultimo secondo e di impegnarsi per viverla bene ».
Al contrario, quale messaggio augurale ti senti di pronunciare ai seriatesi, che per natura sono più ottimisti delle domande che ti ho fatto?
Beh, direi di continuare ad essere ottimisti. Abbiamo bisogno di ottimismo, che non è ingenuità. A volte noi confondiamo l’ottimismo con l’ingenuità di chi dice che va sempre bene. L’ottimista è quello che riesce davvero a guardare alla vita con fiducia. E un uomo di fede non può che guardare alla vita così. Se noi crediamo che Gesù Cristo, come dice la conclusione del Vangelo di Matteo, è con noi fino alla fine del mondo e poi alla fine del mondo, saremo noi pienamente con Lui, andiamo avanti ad essere ottimisti. Ecco, se posso fare un augurio congiunto a me e ai seriaesi è quello di camminare insieme sempre con questo ottimismo, perché anche ci fossero, qualche fatica si superano stando insieme, camminando davvero insieme con fede e con semplicità.
Ecco questo credo sia l’augurio più bello che posso fare al momento. Poi conoscendoci, gli auguri potranno aumentare.