Ha il sorriso e il fascino di J.F. Kennedy e la sagacia di papa Giovanni. Concentrato ma eclettico, ama la retorica, odia la retorica, si mette in gioco, scala le emozioni ed è uomo di unità. Di materia e forma. Spacchetta domande e ricompatta risposte malgrado le interruzioni. Non saprei dire bene se la sua storia di prete è come quella del fantastico cavaliere che soccorre qualcuno o chissà cosa, ma proprio per questo lo trovo affascinante. Vale la pena incontrarlo.
Per don Leonardo Zenoni è un nuovo inizio qui a Seriate. Il 25 settembre fa il suo ingresso proprio quando salutiamo don Marcello al San Giuseppe. E lo rincontriamo anche dalle ore 17 del giorno successivo per la chiusura delle feste del Redentore.
Ben arrivato don Leonardo, potresti presentarti?
L’inizio.
Sono nato a Nembro e ho 37 anni (22 maggio 1984, n.d.r.). Non ho fatto il seminario minore, ma la vita normale da ragazzo tra scoutismo e oratorio. A quest’ultimo, però, mi sono avvicinato un po’ tardi e in particolare con l’evento della GMG del 2000 . Lì c’è stato un aggancio molto breve ma intensissimo con l’oratorio (che avevo frequentato solo per la catechesi). Dal 2000 al 2002, la vocazione, quel desiderio di farmi prete che avevo fin da bambino, sfumato durante l’adolescenza, si era riattivato. Sono stati due anni meravigliosi. Ho frequentato il liceo classico “Sarpi” e sto capendo solo adesso quanto abbia ricevuto da quel “temibile” liceo. In seminario sono entrato all’età di 19 anni, proprio durante l’ultimo anno delle superiori. La mia quinta superiore si divideva, così, tra il “Sarpi” e la comunità propedeutica del seminario. Un anno di discernimento molto intenso. Ero molto giovane e molto sotto pressione per la maturità: mentre gli amici pensavano all’università e io, invece, pensavo se farmi prete. Presa la decisione, poi, sono entrato nel seminario diocesano di Bergamo. Qui ho vissuto 6 anni molto belli e intensi.
Già “parroco”!
Ordinato prete, il mio primo incarico mi ha avvicinato alla parrocchia di Valtesse, Sant’Antonio in città. È vero, il primo amore non si scorda davvero mai! Mi sembra più simbolica che reale questa esperienza: in questa piccola periferia di città, uno dei più piccoli quartieri di Bergamo, mi sono trovato con un parroco molto anziano e con il patto «tu rimani finché rimane lui». E così è stato. Sono rimasto soltanto due anni, ma molto belli e faticosi. Soprattutto perché, io arrivato da una parrocchia “grande” come Nembro, mi sono ritrovavo in una realtà “piccola”, dove c’era… non dico niente, ma quasi. In realtà non c’era niente di quello che mi aspettavo, ma c’era tutto l’inatteso, bello e sorprendente! Dopo 5 mesi, il parroco ha avuto un infarto, rimanendo degente per quasi tutto il resto del tempo. Posso dire dunque di aver “fatto” il parroco a soli 26 anni. Poveri loro!
Dicevo che a 25 anni e un giorno (23 maggio 2009) sono stato ordinato prete. È stata la più grande sorpresa della mia vita anche perché, in quel primo posto così difficile e in condizioni avverse, mi sono sentito benissimo con i ragazzi, con i giovani, con gli scout.
L’obbedienza.
Il 7 giugno del 2011 vengo nominato a Roma come studente di Patrologia frequentando la Pontificia Università Gregoriana e abitando al Collegio Lombardo.
Dopo due anni “di studio matto e disperatissimo”, torno finalmente alla vita! Nel senso che ho sempre desiderato il ministero attivo, la cosiddetta pastorale. Così mi mandano a Sotto il Monte e Botta di Sotto il Monte. Il vescovo Francesco mi chiede di dedicarmi alla pastorale giovanile di queste due parrocchie per intraprendere l’unità pastorale e nel frattempo per insegnare Patristica nel Seminario vescovile.
La sorpresa.
A Sotto il Monte, come sapete, è viva la figura di papa Giovanni XXIII e devo dire che per un prete bergamasco andare nel suo paese natale è davvero un impegno non da poco. Lo dico col senno di poi, perché io ci andai con tanta “santa innocenza”.
Ricordo che giunsi lì con la convinzione di formare una unità pastorale, cioè essere “uomo di unità” (parolona): l’impegno sarebbe stato quello di unire due comunità passando attraverso i giovani. Era la mia prima missione e anche se ero lì da poco, mi sono accorto che papa Giovanni c’era. Lui non era semplicemente un orpello dell’organizzazione.
I due fronti.
Ho vissuto su due fronti.
Quello della pastorale ordinaria (ma in realtà straordinaria in sé perché appunto dovevo inventarmi questa unità con i giovani e mettere insieme due parrocchie, una molto grande e una piccolissima, una famosa e una non troppo famosa, peraltro alloggiando da tutt’altra parte rispetto ai due oratori). L’ordinarietà m’imponeva un modo nuovo di essere prete.
E poi il fronte “papa Giovanni XXIII ” perché con Mons. Claudio Dolcini, mio parroco, ho lavorato per rimettere in piedi questa figura di santo, che è immensa e ampiamente sottovalutata. Secondo me, in primis dai bergamaschi e dai preti in modo particolare, perché facilmente si confonde papa Giovanni XXIII con un buon prete di campagna divenuto papa. Egli è molto di più.
L’ “invenzione” del santuario è stata l’occasione per conoscere questa figura immensa, eclettica, apparentemente “banale” nel senso di non “abbagliante”, con quella semplicità semplice, ma anche con i suoi chiari e scuri. Papa Giovanni è l’uomo bergamasco per eccellenza: se vogliamo semplice, ma anche molto sagace, molto capace. Papa Giovanni era capacissimo di stare con la gente, di farsi valere quando doveva, in grado di guardare molto più in là rispetto agli altri. Il «physique du rôle» che noi vediamo esteriormente di Rocalli appaga l’occhio (perdonate la banilita: è l’aspetto del semplice uomo “bello tondo”). A mio avviso quella è stata l’ armatura che Dio gli ha dato per nascondere il guerriero che c’era dentro. Papa Giovanni è stato un uomo dalle grandissime capacità politiche. Da quanto studiato e letto, ho riscontrato capacità che lasciano stupiti – anche in negativo – (negativo secondo una certa retorica ecclesiastica) perché non penseresti mai che i santi si siano comportati così. Si tratta di una santità molto scaltra, molto meno banale di come viene descritta. Solitamente si parla di una santità basata sulla bontà, ma io a Sotto il Monte ho imparato che non è importante essere buoni. La bontà è sopravvalutata e la santità è tutt’altra cosa. I seriatesi lo sentiranno nelle prediche.
Momenti di grazia.
A Sotto il Monte ho vissuto anni molto belli, arricchiti da tantissimi “eventi”, come si direbbe in ambito profano, ma che io invece chiamo “momenti di grazia”, cioè pellegrinaggi, incontri con personalità di alto livello della chiesa. Uno di questi momenti è stato la canonizzazione. Pensa, ho avuto la nomina il 21 giugno e pochi giorni dopo ho saputo che il “mio parrocchiano” diventava santo. Ero a Londra quando mi è giunta questa notizia. Ho capito subito che non sarebbe un ministero normale.
La santità.
Sì, certo che anch’io l’avrei fatto santo, ma c’era il problema che non faceva miracoli. E sai perché? Perché papa Giovanni è bergamasco fino alla fine: non fa miracoli, ma fa tante grazie. Fa, cioè, questi miracoli ordinari nelle famiglie ma non fa i miracoli «quelli belli», quelli che si addicono ai grandi santi! Poi, papa Francesco ci ha visto lungo e, utilizzando una possibilità che si trova nell’ «ordine della canonizzazione dei santi» chiamata «equipollenza», ha evidenzianto che la devozione del popolo è già un miracolo in se stessa. Il fatto che papa Giovanni sia amato e conosciuto da tanta gente, anche «insperata» fra l’altro, gente che non ti immagineresti mai d’incontrare a tarda notte nel Giardino della Pace di Sotto il Monte, rende già questo un miracolo.
Quindi arrivo a Sotto il Monte e papa Giovanni XXIII viene proclamato santo.
Curiosità.
Papa Giovanni XXIII ha insegnato Patrologia e Storia in Seminario. Lui ha sempre avuto un interesse per gli studi storici. Lo dimostra la cura per gli archivi, le fonti storiche. Papa Giovanni archiviava tutto! Amava archiviare e amava moltissimo le fotografie. Non voglio definirlo ante litteram, ma volendo era «social» a suo modo. Teneva con sé molte fotografie che lo ritraevano e ne aveva una certa ammirazione (da non confondere con il narcisismo e il divismo di certi selfie di oggi, n.d.r.) . È stato giornalista, scriveva di tutto a tutti, a gente di ogni ceto e rango. Ha scritto lettere molto gustose, di una capacità linguistica bellissima e una sagacia impressionante. Il senso della storia appartiene moltissimo a papa Giovanni. Certo, non con lo sguardo di chi visita un museo, ma di chi ammira un giardino (la frase è sua in riferimento al mistero della Chiesa); come chi guarda il presente in modo nuovo e, soprattutto, ne intuisce il futuro.
La storia.
Il senso della storia ha permesso a Papa Giovanni XXIII di risolvere casi diplomatici seri , insieme alla sua capacità di essere paziente, di ascoltare tutti. Lui sapeva cosa comportano certe scelte nella Chiesa. Egli ha sempre guardato la Chiesa nella sua totalità. Lo si nota durante il Concilio Vaticano II, che è l’emblema di tutto. Un uomo come lui, se vogliamo così lento (come dicevo anche la corporatura ne è indizio…) tranquillo, così amante del passato, così… apparentemente poco innovatore, ha lasciato un segno strabiliante di modernità e novità.
Forma e sostanza.
Una cosa che non si dice di papa Giovanni XXIII è che teneva moltissimo all’etichetta e alla forma. Anche nell’abbigliamento sembrava un prete dell’ ‘800 , forse meno innovatore di Pio XII. Era molto rigoroso e dava grande importanza alla forma. Quindi, quando si pensa a un papa Giovanni riformatore nel senso che lui avrebbe cambiato tutto sovvertendo semplicemnte il modo di fare e di parlare nella Chiesa, si sbaglia. Ma, appunto, un uomo così, che entra in Concilio sulla sedia gestatoria fino all’ultimo passo, un uomo che sa bene quali sono i suoi compiti nella Chiesa, è stato l’uomo che ha visto il futuro. Per questo a me piace credere che sia – ma è il nazionalismo bergamasco che parla – in tutto ciò molto bergamasco: siamo un po’ lenti e seguenti, senza picchi di originalità … ma quando il bergamasco dà il colpo, il colpo rimane!
Immagine della Chiesa.
Il senso della storia ha impedito a papa Giovanni di distruggere o semplicemente di innovare in maniera molto banale. Ha davvero seguito lo Spirito Santo che, secondo me, ha giocato scherzi anche a lui. Davvero lui è stato obbediente, di una obbedienza che l’ha proprio condotto ad essere oltre sé stesso, oltre quello che lui immaginava per la Chiesa. Forse la Chiesa post-conciliare a lui sarebbe stata stretta, poichè era un uomo di un altro mondo, di un’altra epoca, eppure questa sua grandezza è profetica nel senso che …è il mondo che deve andare avanti. Io mi fermo, resterò indietro … purché si segua lo Spirito.
L’amicizia.
Nelle note fondamentali della sua vita che ho un po’ recuperato quello che più emerge è l’amicizia. Papa Giovanni sapeva essere amico delle persone. Anche questo fatto non va creduto in maniera melensa, come se fosse l’amico del popolo. Era amico dei suoi amici, che non erano molti. Uno su tutti è il nostro arciprete di Seriate, mons. Carozzi. Papa Giovanni ha coltivato tantissimo le amicizie… con lettere, con incontri. Questo sentimento molto profondo dell’amicizia gli ha un po’ spianato la strada per successivi passaggi diplomatici.
In breve.
A Sotto il Monte ho incontrato tutto questo. Poi c’è stata la «Peregrinatio», l’arrivo delle reliquie di papa Giovanni, eventi e momenti indimenticabili. Ho avuto la possibilità di tenere molte catechesi, di ascoltare, di stare molto in confessionale, di vedere «la pietà popolare», così come viene definita da papa Francesco. Per me è stata una ricchezza. Ho vissuto in un paese molteplice dove c’era un cardinale, Capovilla , i missionari del Pime, i Servi di Maria e il ricordo, ancora oggi vivo, di padre Turoldo. Io abitavo alla Botta, appunto la parrocchia di Turoldo, oggi meta di tanti pellegrini e cercatori di Dio. E, in tutto questo, non posso dimenticare i miei ragazzi e il lavoro di unità pastorale. Il servizio vissuto all’oratorio è stato ancora più bello. Ritengo che come Chiesa dovremmo impiegare più forze nel servizio dei ragazzi e soprattutto dei giovani! Oh i giovani, chissà quando cominceremo a credere davvero in loro? A servirli – e non a servircene (come diceva don Tonino Bello) – con maggior impegno. Loro sono il futuro.
Cosa provi emotivamente, pensando a questo nuovo inizio?
Ringrazio per la domanda e l’avverbio «emotivamente». Metto le emozioni come parte integrante della vita di una persona. È una cosa molto mia che ho intuito a Roma e scoperto poi a Sotto il Monte. Nel mio percorso di prete ho scoperto che le emozioni non sono tutto, ma sono tanto. Quindi rispondo in maniera emotiva.
Provo un po’ di apprensione, perché non sono uno che si lancia. Mi faccio l’idea di essere nel posto sbagliato, ma comprendo che non è il posto ad esserlo, sono io … perché temo di non sentirmi la persona giusta nel posto giusto, perché mi sembra di non aver niente da portare. Vengo quindi con molta calma e, come direbbero i giovani, «vedo come butta!». Un po’ di paura ce l’ho per quello che sta davanti ed è paura per la stagione nuova della mia vita. Tutti dicono che sono giovane ma forse sono l’unico che si sente invecchiare di anno in anno e a volte non capisco come facciano certuni a sentirsi giovani fino a 70 o 80 anni (e a non mollare alcuni posti di governo). Tuttavia, sento che la vita sia importante e provo in essa una profonda fiducia, mi fido e mi sto fidando sempre di più. Andiamo e vediamo.
Quale fotografia appoggerai come prima sulla scrivania?
Bellissima domanda. Due risposte.
La risposta emotiva è che appoggerò qualche foto di Sotto il Monte, immagino quella con i miei ragazzi e la foto dell’abbraccio tra me e il mio parroco mons. Claudio Dolcini al mio saluto.
I miei ragazzi, perché davvero ho ricevuto tanto da loro. Ho sentito la mia famiglia in loro. E don Claudio perché siamo stati due fratelli, non nel senso melenso come si usa dire spesso nella Chiesa, ma nel senso di fratelli come si usa in famiglia. Lo ringrazio molto davvero.
Questa è la risposta emotiva e sarei un traditore se non dicessi la verità.
Poi aggiungerei una foto della mia ordinazione sacerdotale, quella in cui il vescovo Francesco m’impone le mani sulla testa. È quella la foto in assoluto! Come si dice, se dovessi morire vi chiedo di mettere quella sulla mia tomba, anche se non sembra appropriata. Perché è la foto del mio sogno, del mio inizio e della mia fine. È la foto che durerà per sempre. È la foto più istituzionale, più statica, ma anche quella più vitale, della Vita che non si sgualcisce ma che si rinnova. Prima metto la mia vita: i ragazzi e don Claudio perché è quello che ho provato … però quella foto lì è la fotografia che sintetizza tutto. Quindi ne metterei due… sono un tipo eclettico, non riesco a fare una cosa alla volta. E poi quelle che farò a Seriate…
Cosa significa, per te e in questo momento, essere sacerdote? Quali energie e talenti metterai al servizio degli altri?
Credo che il sacerdote debba essere l’uomo che sta in ascolto dello Spirito Santo e che cerca di scovare i semi della grazia ovunque questi ci siano.. È stato il tema della mia tesi in Patrologia. Credo davvero che questo tempo, un tempo che un domani descriveremo come «di decadenza», da non intendere in senso negativo. Le chiese sono vuote, è vero, e anche gli oratori e… metto giù io il disastro, se volete. Qualcuno potrà giudicarmi come un prete giovane ma severo, pessimista, negativo… In realtà mi sento di un felice profondo, anche perché credo che abbiamo una missione davanti: «che sia una meraviglia».
Credo che il prete abbia questo compito: ascoltare lo Spirito Santo, riformare la sua vita di prete ogni giorno ridandogli la forma di Cristo e cercando Dio ovunque si trovi.
Il prete deve essere in questo periodo più coraggioso. Stiamo mancando tanto di coraggio, io per primo. Sono convinto che l’«unione fa la forza». C’è una bellissima frase del beato Antoine Chevriére, che misi sull’ immaginetta della mia prima messa (23-24 maggio 2009) ma credo che valga anche oggi. Lui diceva, nell’800, in una Francia disastrata religiosamente e socialmente: «Questo è un buon tempo per essere prete». Ciò significa che anche questo è un buon tempo per essere cristiani. « Perché, mi verrebbe da dire, con uno slogan abusato e che mi dispiace dover usare: «se non ora quando?». Mi domando come cristiano: «ma noi siamo al mondo per che cosa, se non per questo mondo?»
Durante il breve incontro con la redazione della Voce in luglio, mi ha colpito il tuo saluto finale: «pregate per me». Come si trasmette la preghiera?
Il «pregate per me» è un po’ inflazionato perché avendolo usato il Santo Padre c’è il rischio che venga considerata una frase fatta… visto che mi piace molto la retorica, odio la retorica e ne conosco i rischi. Non mi ritengo un uomo retorico, anche se qualche volta sentirete frasi molto formali, ma proprio perché le conosco le tengo a distanza. Quindi il “pregate per me” non è retorico. In quello che dico ci credo davvero.
Credo che la preghiera sia davvero il respiro della vita cristiana. Chi non prega (a proposito… userei una frase un po’ retorica vecchia maniera) :«chi prega si salva, chi non prega si danna». Sembra retorica ed è terribile per certi versi. Però ci credo. La preghiera è la nostra salvezza perché è l’incontro quotidiano con Gesù vivente.
Può essere declinata in tante forme, non corrisponde solo alle preghiere ripetute (giaculatorie, n.d.r.) anche se queste sono fondamentali, ma la preghiera è il respiro della vita di un cristiano.
Io credo che una delle fatiche del mio ministero, del mio essere cristiano, è la mancanza della preghiera. Non preghiamo più. Non è perché non accendiamo abbastanza candele che allora Dio si adira! No, siamo noi che siamo distratti. E non vediamo il Regno perché non preghiamo.
Voglio ricordare una bella frase di D. M.Turoldo che dice così: «Nessuno è tanto contemporaneo e presente alla propria epoca quanto il vero uomo di preghiera: tanto da muoversi, come pochi, sul piano del mistero più che esaurirsi nella ingannevole linea dei fenomeni; e cioè perseguendo un senso di ciò che accade, più che lasciarsi travolgere dall’apparente trionfo di ciò che muore». In altre parole
l’uomo davvero contemporaneo alla vita è l’uomo di preghiera perché la preghiera ti impedisce di soffocare nelle vicende storiche e di lasciarti tramortire dal futuro e di perderti nel presente.
Quindi l’uomo che prega è l’uomo aderente al presente.
Sei insegnante. Come ti approcci al mondo giovanile, ben sapendo quanto molti di loro siano distanti dalla Chiesa?
Sono insegnate in seminario, dove vivono ragazzi che vogliono diventare sacerdoti. In questo senso ho “gioco facile” e incontro i ragazzi nel loro primo anno. Non sono lontani dalla Chiesa, anzi, fin troppo innamorati della Chiesa, lo dico in senso positivo.
Non saprei come potermi approcciare a ragazzi “lontani”. Mi sarebbe piaciuto insegnare religione nelle superiori. Provare, perlomeno, nelle scuole di Stato.
Come approcciarsi coi ragazzi lontani dalla Chiesa? Io credo si possa fare col senso di una buona accoglienza, anche se mi sono reso conto che ad essere accoglienti, a fare il prete ben disposto che li saluta, li incontra, con modi giovanili nel vestire, nel parlare, nel porsi… non sia per forza di cose una carta vincente. Mi sono accorto che i giovani, paradossalmente sono più istituzionali di noi che non siamo più “immediatamente giovani”. Mi pare d’aver intuito che i giovani, nel prete, cercano il prete. Se mi presentassi ai ragazzi in calzoncini e maglietta, con la sigaretta in mano e una canzone alla moda, loro mi guarderebbero con sospetto e sfiducia. I giovani vedono una istituzione, quindi io personalmente cerco di far pace con questo fatto: mi presento per quel che sono, prete e istituzione. In qualche modo comunico che sono quella roba che loro vorrebbero prendere a calci! Ben venga. Non mi mostrerò diverso da ciò che sono. Con molta serenità. Questo funziona per me. Per me, prete. Non credo che sia la casacca o il linguaggio a determinare un cambiamento (Papa Giovanni insegna!). Tu sei prete e io parto da lì. Parto da certe loro domande, da certi loro rimproveri che hanno nei confronti della Chiesa e poi si cammina con la fede in Gesù e non nel prete che salva il mondo!
Uno dei segreti che ho scoperto come efficace coi giovani, perché l’ho provato sulla mia pelle, è la forza delle emozioni. Partire con i giovani ascoltando le loro emozioni e mettendomi anch’io in gioco. Quando incontro un giovane e parliamo delle emozioni io non sto sul bordo della piscina a insegnare al giovane a nuotare, mi butto dentro anch’io: lui mi dice che emozione prova, e gliela dico anche io. Eppure osservo che noi preti siamo restii a parlare delle emozioni e su questo anche io predico tanto, ma non muovo neanche con un dito, come dice il Signore. Anche io corro questo rischio e allora ho cercato un po’ di imparare da questi anni nella speranza di continuare a farlo … di fare quello che dico. Vi posso assicurare che predicare è molto più facile di quanto si possa pensare.
Quindi, facciamo un lavoro sulle emozioni? Gioco anch’io. In questo senso il mio essere scout mi ha un po’ aiutato. Ma mi ha aiutato adesso perché non l’avevo capito fino a qualche anno fa, incarnando l’educazione scout per la quale i capi giocano con i ragazzi, pur rimanendo capi. Quindi l’istituzione, come dicevo prima, rimane…e io non fingo di essere quello che non sono.
Come immagini di avvicinarti ai seriatesi e riscaldare il cuore di chi incontri per progettare qualcosa insieme?
Visto che siamo italiani e la moda è il nostro mestiere fra i tanti, penso che uno stilista o un sarto debba adattare l’abito e l’ago al corpo e alla situazione che si trova davanti.
Non tutti i vestiti vanno bene per ogni momento e non a tutte le persone, non a tutte le età. Se io credo di avere uno stile mio, è proprio per questo che sono disposto a cambiarlo.
Come mi avvicino ai seriatesi? Semplicemente mi avvicino… perdonate anche questa retorica e perdonate il povero prete che è in me, con il desiderio di ascolto… e poi fra tre mesi direte che questo prete, che ha detto che voleva ascoltare, non ascolta, comanda e fa quello che vuole… ancora una volta avrete pietà di me e capirete che la frase «pregate per me» non era finta. So di essere un disastro.
Quindi, ascoltando… con lo stile dell’ascolto e guardando dove sono. Ci metterò idee, cuore e passione anche se, apparentemente – lo dico già a voi seriatesi – sentirete dire che don Leonardo è precisino, professorino, elegante e parla difficile. In realtà sono tutta passione.
Lo so, avendo tante idee, dovrò fermarmi, dicendo a me stesso “Leonardo ascolta!”. D’altra parte io mi sento ascoltato. Quando avevo espresso al vescovo il desiderio di servire i giovani dopo la pandemia, lui mi manda a Seriate. E a Seriate ecco i giovani. Ho l’onore di lavorare, innanzitutto, con dei preti giovani e bravissimi, don Luca e don Fabiano. È un fatto unicum in tutta la diocesi. Io non mi aspettavo tutto questo dalla vita. E Dio comincia già a sorprendermi.
Quindi, vengo a Seriate con il desiderio di ascoltare, cercando di mettere le mie idee e soprattutto la mia passione al servizio della realtà perché il realismo è per me un motto: «realismo e non idealità». Poi, credo profondamente nel lavoro di squadra. Vengo per lavorare col presbiterio. Con l’arciprete e gli altri preti. Tutti insieme. Davvero questa – spero di non deludervi – è la prospettiva. Si deve lavorare insieme. Almeno per noi preti. Lo so che non è facile perché il prete non è portato a lavorare con gli altri. Retoricamente sì. Ma la retorica è una lama a doppio taglio… Il lavoro di squadra è una sfida.
In sintesi: ascoltando la comunità, mettendo le mie passioni al servizio., lavorando coi preti giovani, ma sempre tutti insieme.