Giustizia riparativa: la forza del dialogo oltre la punizione

Riportiamo la versione integrale dell’intervista
all’avvocata Roberta Ribon pubblicata sulla Voce si Seriate di Aprile 2025


In un tempo in cui la giustizia viene spesso percepita solo come punizione e conflitto, c’è chi ogni giorno costruisce percorsi di dialogo, responsabilità e riconciliazione. La giustizia riparativa, conosciuta ma ancora poco attuata in Italia, rappresenta una frontiera culturale e sociale che mette al centro la relazione tra vittima e autore del reato, con l’obiettivo di sanare ferite e prevenire recidive. Ne parliamo con l’avvocata Roberta Ribon, impegnata in prima linea in questo ambito, per comprendere come funziona, quali opportunità offre e perché potrebbe diventare una risorsa preziosa.

Come si è avvicinata al tema della giustizia riparativa?

Ho conosciuto la giustizia riparativa e le sue pratiche nel 2004, grazie all’incontro con Virgilio Balducchi, all’epoca cappellano della casa circondariale di Bergamo e responsabile del settore giustizia della Caritas Diocesana di Bergamo. Chiesi a Virgilio l’opportunità di vivere esperienze di volontariato carcerario e lui mi prese in contropiede proponendomi di  fare parte del primo gruppo di mediatori penali operativo sul nostro territorio. 

Virgilio aveva accolto vissuti e narrazioni di moltissimi autori di reato in esecuzione pena che esprimevano il desiderio di non scontare una pena qualunque rispetto ad una collettività generica, pagando in maniera astratta il proprio debito verso la società, ma piuttosto di riparare il male compiuto verso le persone che avevano direttamente o indirettamente offeso mettendo in atto azioni concrete .

Per me, una giurista, un inedito sentire parlare di una giustizia che aprisse squarci così implicanti. Raccolsi la sfida ed ebbi il privilegio di essere formata alla mediazione penale secondo il modello umanistico di Jacqueline Morineau dall’associazione Dike – associazione per la mediazione dei conflitti di Milano diretta da Adolfo Ceretti. Nel 2005, cominciai ad essere operativa quale volontaria presso l’Ufficio di Mediazione e Giustizia Riparativa di Caritas Bergamo.

Come spiegherebbe, in parole semplici, cos’è la giustizia riparativa?

Posso parlare solo con grande umiltà di questo Paradigma di Giustizia, che è la Giustizia Riparativa, così fragile ma al tempo stesso così forte di esperienza.

Della Giustizia Riparativa e della Mediazione Penale, la più nota pratica riparativa in Europa, si sono occupati sia le Nazioni Unite nel 2000 (Principi Base relativi all’impiego dei programmi di Giustizia Riparativa in materia penale) che, ancor prima, il Consiglio d’Europa, con la Raccomandazione (99)19 relativa alla Mediazione in ambito penale.

Per Giustizia Riparativa le Nazioni Unite intendono ogni procedimento nel quale la vittima e il reo  e, se opportuno, ogni altro individuo o membro della comunità, leso da un reato, partecipano insieme attivamente alla risoluzione delle questioni sorte con l’illecito penale, generalmente con l’aiuto di un facilitatore

Si tratta di un percorso volontario, nel quale l’autore del reato e la vittima, e se possibile i membri della comunità, partecipano insieme, attivamente, alla ricucitura della relazione infranta e al lavoro costruttivo sulle questioni rilevanti emerse dal reato.

Trovo che questa definizione sia interessantissima, innanzitutto perché è straordinariamente semplice, e come tale accessibile a chiunque e dunque non solo agli addetti ai lavori, operatori giuridici. Poi perché l’idea di partecipare insieme ad un lavoro di ritessitura della relazione che parte dal crimine per riscoprire il valore della norma violata è quanto di più vicino a quello che Claudia Mazzucato definisce essere una risposta democratica di giustizia.

Se ci pensiamo bene, infatti, ogni volta che lo Stato usa la forza per richiamare al rispetto della norma giuridica, si allontana dagli ideali della Democrazia. Infine perché apre (anche al giurista) spazi di riflessione interessantissimi rispetto al cuore del precetto, che non è identificato nella sanzione passiva, in una logica di moltiplicatore del male, ma in un sistema di azioni positive, capaci di ripristinare a posteriori l’osservanza del precetto guardando in avanti, ossia a comportamenti futuri, fra i quali può certamente essere inclusa anche la riparazione del danno ove sia possibile, ma principalmente l’impegno al rispetto del precetto.

 

Quali sono i principali strumenti della giustizia riparativa?

I modelli di intervento della giustizia riparativa di più consolidata tradizione e applicazione per gestire i conflitti aventi rilevanza penale spaziano dalle scuse formali, al dialogo riparativo (restorative and peacemaking circle), dalla mediazione autore-vittima (victim-offender mediation), sia diretta che con vittima a-specifica o surrogata, alla mediazione allargata ai gruppi parentali (family group conferencing).

La mediazione reo – vittima è la pratica di giustizia riparativa che nel nostro Paese conosce l’esperienza più consolidata e diffusa. La Raccomandazione (99)19 del Consiglio di Europa relativa alla Mediazione in ambito penale definisce questa pratica come ogni procedimento nel quale la vittima e il colpevole sono messi in condizione, se vi acconsentono liberamente, di partecipare in modo attivo alla risoluzione delle questioni sorte dal reato attraverso l’aiuto di un terzo imparziale, il mediatore. La mediazione tende a favorire il riconoscimento reciproco dei suoi protagonisti e dunque la comprensione degli effetti della vittimizzazione.

Nei casi in cui non è praticabile un incontro diretto fra vittima e autore del reato per indisponibilità della persona offesa o per la valutazione di non opportunità dell’incontro fatta dai mediatori in relazione alla specifica tipologia di reato commesso o alle dinamiche relazionali tra le parti è possibile promuovere la mediazione tra l’autore del reato e una vittima diversa da quella direttamente coinvolta nella vicenda criminosa.

Di Community family Group Conferencing ossia di dialogo esteso ai gruppi parentali si parla quando si fa riferimento ad una sorta di mediazione “allargata” in cui tutti i soggetti che sono stati coinvolti dalla commissione di un reato – l’autore e la vittima, innanzitutto, ma anche i familiari delle parti in conflitto e alcuni componenti fondamentali delle rispettive comunità di appartenenza – decidono collettivamente come gestire la soluzione del conflitto. L’ordine dei colloqui e la discussione sul fatto di reato e sulle modalità per la riparazione del danno sono guidati da un facilitatore.

 

Come viene gestito un incontro tra vittima e autore di reato e quali sono, secondo lei, le qualità umane e professionali che servono per lavorare in questo campo?

I casi di mediazione penale vengono sempre gestiti da un’équipe di mediatori esperti. Ciascuna delle parti viene invitata a partecipare separatamente ad un colloquio preliminare nell’ambito del quale viene informata sul significato della pratica riparativa, viene ascoltata nel suo vissuto e invitata ad esprimersi rispetto alla volontà o meno di incontrare l’altra parte. Al mediatore non è chiesto solo di formarsi alle pratiche riparative secondo gli standard oggi definiti dal legislatore ma di affinare continuamente la propria capacità di ascolto non giudicante.

 

Qual è la situazione normativa attuale in Italia? Ci sono stati passi avanti concreti?

In Italia, la giustizia riparativa ha avuto negli anni un parziale sviluppo pur senza l’esistenza di una cornice complessiva organica di riferimento, inserendosi in spazi normativi residuali all’interno di leggi che parlano d’altro. 

Le prime esperienze di giustizia riparativa in Italia iniziano negli anni novanta, in ambito minorile. Nonostante il le norme disciplinatrici del processo penale minorile, risalenti al 1988, non prevedessero – fino alla recente Riforma c.d. Cartabia – espressamente la mediazione penale, fossero state modellate intorno alla figura dell’autore di reato minorenne e pensate sugli interventi ad esso destinati, di fatto ne hanno consentito la sperimentazione grazie alla loro flessibilità, con ciò riconoscendo uno spazio inedito alla vittima che, nel processo penale minorile, non è parte. La pratica mediativa, infatti, si poneva in perfetta sintonia con gli obiettivi che si pone il processo penale minorile, ovvero il recupero educativo del minore autore di reato ed il suo reinserimento sociale, perchè in questo particolare contesto gli interessi statuali di difesa sociale e la finalità punitiva della pena arretrano di fronte all’esigenza primaria di recupero del minore.

Tali norme hanno permesso la conseguente genesi di esperienze concrete: dal 1995 sono stati attivati centri per la mediazione penale minorile, con sede autonoma rispetto al Tribunale per i minorenni, con i quali collaboravano operatori del servizio sociale e sanitari esperti nonchè volontari. Il primo riconoscimento legislativo alla mediazione e alla riparazione riguardante gli adulti è avvenuto 12 anni più tardi, con le disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, nel 2000. La normativa prevedeva infatti che per i reati procedibili a querela il Giudice di pace, nella concreta declinazione del potere conciliativo affidatogli, potesse sospendere  il procedimento per due mesi, incaricando dell’attività di mediazione centri e strutture presenti sul territorio. Le pratiche riparative si affacciarono anche nella fase dell’esecuzione penale, a livello sia dell’ordinamento penitenziario che del relativo regolamento di attuazione.

Altra tappa strategica circa la mediazione riguardante gli adulti è rappresentata dalla Legge 67/2014, che ha introdotto nell’istituto della messa alla prova la possibilità di inserire nel programma trattamentale condotte volte a promuovere, ove possibile, la mediazione con la persona offesa. Sia sul piano normativo che giurisprudenziale, l’ordinamento giuridico si è arricchito via via di istituti e pratiche ispirate da logiche riparative.

E’ con la Riforma della Giustizia operata dalla Ministra Cartabia nel 2022 che tuttavia viene introdotta nel nostro ordinamento giuridico la prima disciplina organica della giustizia riparativa. Il legislatore italiano, che ha scelto di uniformarsi alle fonti normative internazionali e sovranazionali, ha previsto che il ricorso ai programmi di giustizia riparativa sia ammesso in relazione ad ogni tipo di reato, a prescindere dalla sua gravità, in ogni stato e grado del procedimento penale, anche prima della eventuale presentazione di denuncia querela, nella fase delle indagini preliminari e anche nella fase esecutiva della pena.

 

La giustizia riparativa è sempre alternativa al processo penale o può integrarsi?

La giustizia riparativa è un paradigma di giustizia culturalmente e metodologicamente autonomo da quello tradizionale, che può esserne complementare, che non opera al di fuori della legge o dentro la legge, ma all’insegna della legge, per usare un’espressione di Adolfo Ceretti. Il suo ingresso anche formale nel nostro panorama giuridico provoca l’integrazione di prospettive molto diverse tra loro rispetto al modo di concepire il reato e di rispondere ad esso. Assistiamo alla sfida posta da un modello di giustizia mite che provoca dal suo interno quella idea di giustizia che ci accompagna da millenni. Quella che l’iconografia classica molto efficacemente ci restituisce con l’immagine di una dea bendata, che si copre il volto per non lasciarsi coinvolgere dalla dimensione umana, emozionale del crimine, del suo autore e della sua vittima, rimanendo con ciò impermeabile alla comprensione dell’azione criminosa. La Dea con una mano imbratta una spada che giudica, imponendo con la sua forza coercitiva, la separazione del bene dal male e con l’altra regge una bilancia che attribuisce a ciascuno ciò che spetta, la meritevolezza o la colpa. Questo è un modello di Giustizia che poggia sul postulato per il quale è giusto corrispondere il male a chi ha commesso il male. Questa è l’unica risposta al crimine che lo stesso autore di reato conosce e che, di conseguenza, si aspetta. Una risposta dalla quale egli stesso è chiamato a difendersi, tanto è vero che nel processo penale gli è consentito negare, mentire, tacere le proprie responsabilità. La verità nel processo non rende liberi ma porta alla punizione e alla reclusione.

Cosa direbbe a chi pensa che sia “buonista”?

A quanti pensano che si tratti di una giustizia ideale, per buonisti o per anime belle, dico che si tratta di programmi di giustizia estremamente concreti, che hanno trovato il proprio riconoscimento in tutto il mondo. In alcune esperienze straordinarie, come quella del Sudafrica, ha segnato uno spartiacque epocale per la popolazione dilaniata dall’apartheid. La Commissione per la Verità e la Riconciliazione incarnò un luogo diverso, altro da una Corte di giustizia tradizionale, nel quale i carnefici erano chiamati a dare testimonianza piena, al cospetto delle vittime, dei loro crimini, compresi i più atroci. In cambio della confessione avrebbero potuto ottenere l’amnistia. Un’esperienza certamente eccezionale di giustizia riparativa, testimonianza tangibile al contempo della possibilità di offrire una prospettiva differente e complementare rispetto al tradizionale approccio punitivo ai comportamenti criminali, anche i più feroci. 

A chi pensa che sia una scorciatoia, una via per “farla franca”, dico che si tratta di una Giustizia che non fa sconti a nessuno, che partendo dall’ascolto del sentimento di ingiustizia, chiama a responsabilità l’offensore non per il fatto ma verso l’offeso, chiede di partecipare in modo propositivo alla sfida dell’incontro con quello che Claudia Mazzucato chiama “l’altro difficile”. E’ una giustizia dell’impegno e non della passiva sottoposizione ad una pena.

Quali sono i limiti più evidenti della giustizia riparativa oggi in Italia? Qual è il suo sogno personale per il futuro della giustizia riparativa in Italia?

Io non parlerei di limiti della giustizia riparativa ma di rischi ai quali può essere esposta laddove, nell’operazione di contaminazione con il paradigma giuridico operata dalla recente Riforma Cartabia, ne esca asservita a logiche di tipo retributivo e snaturata della sua essenza più profonda. Assisteremmo alla implosione della giustizia riparativa nel nostro Paese, il primo fra l’altro a fregiarsi di una disciplina organica, proprio in concomitanza con il suo – per nulla scontato – riconoscimento istituzionale.

Non nascondo che esistano delle questioni nodali, problematiche derivanti dalla messa a terra della riforma che chiamano a paziente ed intellettualmente onesto dialogo i professionisti afferenti al paradigma riparativo e a quello giuridico al fine di scongiurare posture divisive e ideologiche. Un banco di prova di grande attualità è offerto dalla applicabilità dei programmi di giustizia riparativa ad ogni reato, compresi quelli afferenti alla violenza di genere. Il dibattito pubblico e tecnico lambisce profili delicatissimi quali ad esempio la tutela di vittime particolarmente vulnerabili in quanto legate ai propri carnefici da rapporti di subordinazione incistate in relazioni gravemente tossiche. 

Sono consapevole che la giustizia riparativa è una delle possibili risposte al reato e che non esaurisce essa stessa la domanda di giustizia però auspico che contribuisca efficacemente a mantenere sempre vivace quella domanda.


In Italia c’è abbastanza cultura della riparazione e del dialogo? Quanto pesa ancora la mentalità “punitiva” nella società e nelle istituzioni? La giustizia riparativa dovrebbe entrare nelle scuole?

In Italia abbiamo coltivato da alcuni decenni pratiche riparative virtuose e registrato esperienze di eccezionale rilevanza come quella che ha visto impegnati per otto anni ex appartenenti alla lotta armata degli anni settanta, vittime e familiari delle vittime in un percorso straordinariamente faticoso alla ricerca comune di una possibile ricomposizione.

Fare cultura della riparazione e del dialogo significa emanciparci sempre più dall’idea che la domanda di giustizia possa essere soddisfatta dalla ritorsione del male al male compiuto, in una logica matematica nella quale i conti non tornano mai e le vittime sono chiamate ad adeguarsi a questa logica e a sopportarne il peso anche etico.

Fare cultura della riparazione e del dialogo significa anche ripensare ai nostri modelli educativi e pedagogici. Nel contesto scolastico, gli adulti sono spesso chiamati a farsi carico di relazioni difficili, conflittuali, che talvolta sfociano anche in comportamenti delittuosi. Ecco la scuola, come comunità educante è un luogo privilegiato per affrontare e gestire le relazioni e i conflitti a partire da un ripensamento delle sue regole interne troppo spesso ancora radicate in pratiche di matrice profondamente retributiva che, affidando alle note e sospensioni disciplinari la risposta al comportamento scorretto si lascia sfuggire l’opportunità preziosa di promuovere il senso di giustizia e di educare alla giustizia.

Che consiglio darebbe ai giovani giuristi interessati a questa strada?

Posso portare la mia esperienza personale, una esperienza che per me è stata pervasiva perché ha contaminato il mio modo di svolgere la professione, contribuendo anche a dare un contenuto più concreto alla funzione sociale che siamo chiamati a svolgere con i nostri interventi quali avvocati/e del terzo millennio.

Non trovo che come mediatrice penale sia per me un vantaggio essere avvocata, tutt’altro. Le implicazioni culturali, legate ad un sistema di giustizia fortemente retributiva che ha caratterizzato il mio percorso di studio, rendono più difficile quell’operazione di “coupè la tete” che Jacqueline Morineau suggerisce per approcciarsi in maniera non giudicante alle parti. Si tratta di lavorare continuamente su se stessi, sui propri conflitti Viceversa, è come avvocata che sento di godere di un privilegio nell’essere anche mediatrice penale, perchè rende più naturale cogliere la dimensione relazionale del reato e veicolare ai clienti degli spazi, dei luoghi, dei tempi per sostarvi.

L’esperienza forense restituisce continuamente come il processo penale non esaurisca la domanda più profonda di Giustizia, che è quella intimamente legata alla sofferenza che il crimine ha provocato, nella vittima, nella comunità e nello stesso reo.



 

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *