La Diplomazia nel nuovo disordine mondiale

Riportiamo l’intervista integrale ad Emanuela Dalzotto,
pubblicata sulla Voce di Seriate di Marzo 2025


In un mondo sempre più interconnesso, la diplomazia e la cooperazione internazionale affrontano sfide senza precedenti. L’anti-intellettualismo mina la credibilità del sapere accademico e scientifico, la polarizzazione politica frammenta l’opinione pubblica e le fake news distorcono il dibattito globale. In questo contesto, l’Europa fatica a consolidare un’identità diplomatica forte, mentre i conflitti internazionali mettono alla prova le capacità degli stati e delle organizzazioni sovranazionali di prevenire crisi e promuovere la pace.

Emanuela Dalzotto è una ricercatrice e sociologa dell’Università di Pavia, specializzata nello studio delle migrazioni e nella cooperazione internazionale. Il suo percorso accademico inizia con studi in scienze per la cooperazione, proseguendo con un dottorato in sociologia. Ha svolto esperienze sul campo in Italia e all’estero con delle organizzazioni non governative. Nel 2004 ha partecipato a un campo di volontariato della Comunità Ruah in Burkina Faso organizzato dai migranti di Niaogho. Oltre alla ricerca accademica, Emanuela si impegna nella promozione dell’inclusione e del dialogo interculturale, partecipando a iniziative che favoriscono la coesione sociale, come il progetto universitario per l’accoglienza degli studenti rifugiati. Dal suo lavoro emerge una forte attenzione al contrasto delle fake news e alla necessità di un approccio critico che distingua la realtà dai pregiudizi mediatici.

Le ostilità verso il sapere accademico e scientifico compromettono il futuro della diplomazia e della cooperazione globale?

Senza dubbio. Io sono una ricercatrice e, più che accumulare esperienze, mi dedico principalmente alla ricerca sulle migrazioni. Credo fermamente che il ruolo dei ricercatori sia duplice: da un lato, la ricerca può fungere da forma di diplomazia, e dall’altro, può operare come strumento di mediazione, contrastando la diffusione di fake news. Offrendo dati e analisi basate su evidenze, la ricerca ci permette di presentare una realtà non distorta dalle percezioni superficiali. In particolare, il mio lavoro si concentra sulle migrazioni forzate e sui rifugiati, esplorando nuove forme di accoglienza che, fondandosi sulla conoscenza anziché sui pregiudizi, possono contribuire a creare comunità più coese e pacifiche, non tanto su scala internazionale, ma partendo dal tessuto sociale locale.

La crescente polarizzazione politica e la frammentazione dellopinione pubblica stanno indebolendo la diplomazia europea? Quali strategie e strumenti diplomatici possono essere adottati per rafforzarla?

Assolutamente, la polarizzazione frammenta il consenso e indebolisce la capacità dell’Europa di presentarsi come un attore diplomatico coeso. Per contrastare questo fenomeno, è fondamentale promuovere un dialogo basato su dati oggettivi e una comunicazione che superi gli slogan elettoralistici. L’adozione di strategie di public engagement – come progetti universitari per l’accoglienza degli studenti rifugiati o iniziative di inclusione sociale – può contribuire a ristabilire un legame tra il sapere accademico e il grande pubblico, rafforzando così la diplomazia europea.

L’Europa potrebbe ampliare il proprio arsenale diplomatico investendo maggiormente in strumenti di cooperazione culturale e sociale. Ho avuto l’opportunità di fare un’esperienza in Burkina Faso, organizzata da migranti del paese, a Niaogho. Questi migranti ci hanno invitato a conoscere la realtà da cui partivano, per farci comprendere sia le ragioni che li spingono a lasciare il loro paese, sia il valore della loro presenza, capace di collegare due realtà, creare ponti e inviare risorse importanti. Tali esperienze dimostrano che il dialogo interculturale e i progetti di integrazione sono strumenti potentissimi per prevenire conflitti e rafforzare la stabilità del vicinato. Sono esempi concreti di come la cooperazione possa avere un impatto positivo sulla coesione sociale.

Il controllo delle informazioni è sempre stato un elemento chiave della diplomazia. Oggi, con la diffusione di fake news e propaganda, come può la diplomazia attutire la manipolazione dellopinione pubblica?

La manipolazione attraverso fake news è una sfida enorme. La diplomazia deve lavorare in tandem con il mondo accademico, promuovendo analisi rigorose e dati oggettivi per sfidare le narrazioni distorte. In questo contesto, c’è anche un altro aspetto rilevante: il fenomeno delle echo-chambers. Oggi, molti cercano esclusivamente informazioni che confermano i propri bias e pregiudizi. Una volta, quando volevi saperne di più, ti rivolgevi all’esperto; ora, grazie alla disponibilità illimitata di dati online, chiunque si considera esperto, anche se spesso si diffondono informazioni che supportano tesi strampalate. L’antidoto, a mio avviso, è il pensiero critico – un lavoro che spetta agli intellettuali: invitare le persone a riflettere su chi fornisce queste informazioni e perché, contrastando così la manipolazione dell’opinione pubblica.

E noi, nel nostro piccolo, come possiamo costruire una “diplomazia” più resiliente e capace di rispondere alle sfide del nostro tempo?
Per costruire una diplomazia resiliente occorre innanzitutto un’apertura mentale e la volontà di ascoltare il diverso. Concretamente, possiamo promuovere laboratori e forum pubblici che coinvolgano esperti e cittadini, favorire iniziative educative che integrino il sapere accademico nel tessuto sociale e sostenere progetti di inclusione culturale, come quelli che ho sperimentato all’Università di Pavia. Queste azioni, combinate con un costante impegno nel contrastare le fake news, sono fondamentali per rafforzare la nostra capacità di prevenire crisi e promuovere una pace duratura.

Detto ciò, riconosco che si tratta di una sfida estremamente complessa. Credo che, oltre a questo impegno, sia indispensabile imparare a leggere e accogliere le preoccupazioni che emergono dal timore del nuovo e dell’ignoto. Non basta porsi dal lato dell’intellettuale, presuntuoso nel vantarsi del proprio sapere; è necessario aiutare le persone a comprendere i meccanismi che alimentano la paura, smontandoli insieme e lasciando spazio a occasioni di conoscenza autentica. Nel mio percorso ho avuto la fortuna di partecipare a ricerche e iniziative che hanno trasformato la ricerca sul tema delle migrazioni – in particolare quella relativa ai rifiutati – in un impegno civico concreto. Con alcuni colleghi, abbiamo creato una rete di ricercatori che opera in tutta Italia, integrando realtà dell’accoglienza e operatori sul campo. Queste iniziative, che partono dall’esperienza dei rifugiati in famiglia e si espandono a livello locale, favoriscono l’incontro tra cittadini, superando pregiudizi e barriere politiche, e promuovendo relazioni basate sulla conoscenza e la reciprocità.

Insieme, queste strategie rappresentano una via per rafforzare la nostra diplomazia, rendendola più capace di prevenire crisi e di costruire comunità coese, capaci di affrontare le sfide del nostro tempo.

Come hai iniziato a occuparti di migrazioni dal punto di vista della ricerca e in che modo la retorica dell’emergenza ha influenzato il tuo percorso?

Già dal 2000 mi interessavo alle migrazioni dal punto di vista del volontariato, perché era un tema per cui ero molto sensibile. Poi, nel 2011, entrando al dottorato in sociologia a Milano, avevo la necessità di sviluppare un progetto di ricerca. Quell’anno, segnato dalle Primavere Arabe, si parlava continuamente di “emergenza”: dalla Tunisia alla Libia, si diffondevano notizie di migliaia di sbarchi, di imbarcazioni cariche di migranti, creando una retorica esagerata per accentuare il senso di insicurezza. In realtà, se si analizzavano i dati, i numeri non erano così straordinari rispetto a situazioni critiche passate, eppure la narrazione faceva leva sul timore.

Questo clima di emergenza costruita ha avuto un impatto profondo su come le società accolgono chi arriva, influenzando sia le politiche che l’opinione pubblica. Fu in questo contesto che ho deciso di dedicarmi con rigore alla ricerca sulle migrazioni, cercando di evidenziare la differenza tra la narrazione mediática e la realtà effettiva dei fenomeni migratori. Oltre alla ricerca, ho voluto portare questo confronto anche fuori dall’ambiente accademico: mi sono impegnata in eventi pubblici e nelle scuole, per spiegare come, grazie a un metodo rigoroso, possiamo ottenere dati oggettivi che sfidano gli slogan e le semplificazioni. Purtroppo, ho avuto anche l’esperienza – ad esempio in un talk show locale – di trovarmi di fronte a chi prediligeva slogan e retoriche facili, evidenziando così la diffidenza che spesso circonda il lavoro dei ricercatori. Questo dimostra quanto, oggi, ci si aspetti da un esperto un rigore e una profondità che permettano di superare la superficialità delle informazioni, come un tempo si faceva affidandosi al parere del medico quando si era malati.

La scuola può giocare un ruolo esperienziale nell’affrontare le differenze culturali?Assolutamente. Credo fermamente che la didattica esperienziale sia uno strumento potente per promuovere il dialogo e l’inclusione. Ho avuto la fortuna di insegnare sociologia e sociologia delle migrazioni, e ho osservato come gli studenti, pur essendo già aperti a confronto, possano trarre enormi benefici da laboratori e interventi che stimolano il pensiero critico e la consapevolezza sociale. Queste iniziative, parte integrante della terza missione dell’università, mirano a coinvolgere non solo la comunità accademica ma anche il pubblico esterno.

Ricordo in particolare la crisi dei rifugiati siriani del 2015: quando la Merkel aprì le porte della Germania, immagini strazianti – come quella del bimbo con la maglietta rossa – sottolinearono l’urgenza di non restare indifferenti di fronte alla sofferenza. Fu in quel periodo che l’Università di Pavia lanciò uno dei primi progetti per studenti rifugiati, offrendo non solo lezioni ma anche alloggi nei collegi. Questo modello, condiviso con altre università e che ha ispirato il manifesto per l’università inclusiva dell’UNHCR, ha contribuito a eliminare la distinzione tra “studente rifugiato” e “studente regolare”. In questo modo, l’accoglienza e la coesione sociale diventano realtà concrete, nate dall’incontro diretto e dalla collaborazione tra culture diverse.

Interessante, questi progetti pilota non hanno una valenza esclusivamente umanitaria, ma possono anche avere un impatto diplomatico, prevenendo conflitti futuri stabilizza un senso di umanità al vicinato, un legame profondo a livello di comunità. Possiamo definirlo così?

Sì, esattamente. Questi progetti vanno ben oltre l’aspetto umanitario: fungono da veri e propri strumenti diplomatici. Creano un tessuto sociale solido che, prevenendo potenziali conflitti, stabilizza il vicinato e rafforza il senso di comunità. Mi piace molto l’idea di “stabilizzare un’umanità vicina” perché implica la costruzione di ponti tra le persone, basati sul dialogo e sulla solidarietà.

E per quanto riguarda il dialogo interreligioso: credi che possa avere un ruolo ancora più incisivo in questi tempi, contribuendo a unire le comunità?

Il dialogo interreligioso è senza dubbio fondamentale e fa parte del potere dell’incontro. Tuttavia, affinché possa operare con maggiore forza, è necessario creare occasioni concrete di confronto. Ho partecipato a eventi in cui, grazie a un’organizzazione attenta – come quella che ha coinvolto rabbini, imam e vescovi – si sono create le condizioni per un vero dialogo, dove la ragione e una fede autentica hanno potuto emergere. Purtroppo, in questi tempi difficili, la religione viene spesso strumentalizzata, e il dialogo rischia di perdere il suo significato unificante. È quindi essenziale far passare la luce della buona volontà e della ragione, affinché il dialogo interreligioso diventi un catalizzatore di inclusione e di pace, andando a colmare le divisioni e rafforzando il senso di comunità.

Quali consigli pratici daresti ai seriatesi per promuovere una cultura di apertura e dialogo autentico?

Il mio consiglio, che può sembrare banale, è di sperimentare l’apertura verso l’altro. Questo non significa necessariamente dover ospitare fisicamente un rifugiato o trasformare ogni casa in un centro di accoglienza; si tratta piuttosto di aprirsi alla conoscenza e al confronto. È fondamentale non avere paura di analizzare i fenomeni da prospettive diverse, evitando di accettare passivamente le versioni superficiali che ci vengono proposte. In altre parole, un’apertura mentale che si traduce in studio, dialogo e relazione arricchisce il nostro modo di vedere il mondo. Anche se alcune realtà potrebbero non piacere, il fatto di conoscerle ci dà gli strumenti per criticarle e, così facendo,

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