Pubblichiamo la versione integrale
dell’articolo parso sulla Voce di Seriate di Maggio 2024
Nell’atmosfera calorosa dell’Oratorio di Seriate, dove il vociare dei ragazzi sui campi di calcio scandisce il ritmo dell’esistenza, tre figure si ritrovano come guardiani del tempo e dei tormenti umani. Sono don Fabiano, don Leonardo e don Alberto, legati da un filo invisibile che intreccia le loro vite fin dai giorni lontani della giovinezza. Quarantenni, all’incrocio tra le speranze dei millennial e le tensioni della mezza età, essi incarnano una trinità di sapienza e struggimento. Come le onde che solcano il mare, i loro dialoghi sollevano interrogativi che scalfiscono la quiete dell’anima, dimostrando che ciò che non trema non è saldo[1], e che solo nell’attraversare le tempeste interiori si trova la vera fermezza dell’essere.
Abbiamo appena vissuto il tempo della Pasqua. Che tempo è quello che ci aspetta oggi e domani? Cosa ci rende cristiani in un mondo turbolento?
Silenzio meditativo…
Don Fabiano – In un mondo turbolento, ciò che ci rende cristiani è la fede nella presenza risorta di Gesù, la Pasqua. Questa fede si rinnova costantemente nel contesto storico in cui viviamo, spingendoci a cercare credibilità nelle nostre azioni e negli incontri che facciamo, ad adottare un approccio equilibrato tra questi due aspetti fondamentali.
Don Leonardo – Essere cristiani in un mondo turbolento significa essere radicati nella persona di Gesù Cristo. La sua presenza costante ci dona stabilità anche quando le acque sono agitate. Dobbiamo essere come i veneziani in gondola, apparentemente fermi ma in realtà capaci di muoverci con flessibilità per affrontare le sfide. La nostra fede ci chiama a ballare sulla superficie delle acque, adattandoci alle varie situazioni.
Don Alberto – La nostra fede in Gesù Cristo ci rende cristiani, e il Vangelo continua a parlare ad ogni uomo e ad ogni tempo. Anche in tempi di crisi, dobbiamo trovare nuove forme per comunicare il messaggio evangelico, adattandoci ai cambiamenti del mondo. È un periodo di sperimentazione e di adattamento, in cui il copia-incolla del passato non è più efficace.
La comunità di Seriate ha mostrato una straordinaria vitalità durante la pandemia, adottando un approccio innovativo alla fede. Come è stato possibile questo cambiamento in tempi di crisi?
Don Leonardo – Il periodo di crisi non ci ha trasformati in “parrocchia accademica”, ha semplicemente portato la comunità a esplorare nuove forme di espressione della fede, utilizzando la tecnologia per raggiungere chi non poteva muoversi. Non bisogna trascurare l’importanza dei rapporti interpersonali e dell’incontro reale al banchetto eucaristico. La vitalità della comunità deriva dalla combinazione di tradizione e innovazione, con un focus sulla profondità delle relazioni.
Don Fabiano – La pandemia ha accelerato l’adozione di nuove modalità di comunicazione della fede, come dimostrano le iniziative della comunità di Seriate su YouTube e altri canali online. Tuttavia, è fondamentale mantenere il bilanciamento tra l’uso della tecnologia e l’importanza delle relazioni personali e dell’incontro faccia a faccia. Due anni fa, un gruppo di persone ha iniziato a incontrarsi il giovedì sera per meditare sul Vangelo della Domenica. Questa pratica antica e profonda offre un’opportunità di coinvolgimento personale, di incontro e di cammino spirituale insieme, al di fuori delle dinamiche social. È la lectio divina.
Don Alberto – Il ritorno alle celebrazioni comunitarie è stato un momento significativo, sottolineando l’importanza di curare e rendere significative tali celebrazioni per parlare alle persone moderne. Oltre alla liturgia, alla meditazione durante la Quaresima e alla lectio divina, si è evidenziata l’importanza di coinvolgere i giovani, offrendo loro opportunità adatte alle loro esigenze spirituali. Questo impegno deve includere la possibilità di approfondire la fede insieme ad altre attività, come l’impegno civile attraverso la Caritas. Mantenere vivi i tre pilastri della chiesa – liturgia, catechesi e carità – richiede di mantenere aperti diversi canali e linguaggi che coinvolgano la comunità in modo completo.
Per questa vitalità e incisività, quanto conta essere nel “mezzo del cammino” della vostra vita?
Don Alberto – Essenzialmente, l’età conta perché influisce sull’energia e sulle capacità fisiche, ma anche sul tipo di ministero e sulle condizioni in cui viene svolto. Il vantaggio di essere ancora giovani è evidente, specialmente per mantenere un’attività dinamica e concentrarsi sulle giovani generazioni. Tuttavia, il tipo di ministero e l’operare di tre curati possono fare la differenza. Ad esempio, non dover gestire interamente le responsabilità amministrative della parrocchia permette di concentrarsi maggiormente sull’assistenza ai giovani e alle attività pastorali. Questa opportunità dovrebbe essere valorizzata, considerando che le responsabilità possono cambiare con il tempo.
Don Fabiano – Appena diventato prete, pensavo di avere una chiara visione del mio ruolo. Tuttavia, ora mi pongo più domande e capisco che alcune certezze non sono così chiare. Concordo con Don Alberto sulla dedizione a tempo pieno nella pastorale, che richiede energia e incisività. Essere in un contesto con molte opportunità di contatto umano mi permette di portare avanti tradizioni come la catechesi e gli incontri personali. Col passare degli anni, ho imparato a trattare le storie delle persone con rispetto, evitando soluzioni preconfezionate e mantenendo aperto un cammino condiviso. A 40 anni, capisco l’importanza di collaborare con altri per valorizzare le storie individuali.
Don Leonardo– Essere intorno ai 40 anni mi ha portato a riflettere sulla mia percezione dell’età e della vita. Ho imparato a lasciare andare le mie aspettative riguardo a certi traguardi e a vivere ogni giorno con più vitalità e spontaneità. È un’età in cui mi sento ancora giovane nel cuore, ma con la saggezza che solo l’esperienza può portare. Mi sento più vicino alle persone, capendo meglio le dinamiche delle relazioni e trovando un nuovo equilibrio tra saggezza e vitalità. Anche se alcune strade sembrano smarrite, ho trovato dei buoni accompagnatori, qualche Virgilio, che mi sostengono lungo il cammino. Non sono solo, ma parte di una comunità che mi incoraggia a giocare e a vivere pienamente questo tempo di vita.
Da osservatori del mondo giovanile, come reagiscono i giovani cristiani della nostra parrocchia? Partecipano attivamente alla vita della società civile e in quali iniziative si impegnano?
Don Fabiano – I giovani cristiani della nostra parrocchia dimostrano un notevole impegno nelle attività sociali e comunitarie. Si dedicano con entusiasmo a iniziative culturali, educative, e di volontariato, prendendo ispirazione dai precedenti generazionali che hanno guidato il cammino prima di loro. Questo impegno rappresenta una forma di restituzione e rinnovamento delle esperienze vissute, mantenendo vive le tradizioni e abbracciando nuove sfide. Tuttavia, dobbiamo costantemente riflettere su come possiamo incoraggiarli ulteriormente e offrire loro opportunità per crescere e contribuire alla società in modo significativo.
Don Alberto – Reagiscono, ed è già una gran notizia. Sono entusiasti perché chi ci sta, ci sta bene. Qualcuno è un po’ più a traino e ci sta che un giovane ci sia perché c’è l’amico, c’è l’amica. Questo è incoraggiante perché dimostra che non rimangono indifferenti, ma si impegnano attivamente. Vedo che coloro che si coinvolgono intraprendono un percorso significativo, scoprendo nuove prospettive se si lasciano provocare dal Vangelo e assumendo impegni che sfidano le loro già fitte agende. La loro presenza ci costringe a guardare al di là delle nostre attività consolidate e a considerare le loro prospettive e le loro priorità. Questo allarga i nostri orizzonti e ci spinge a riconsiderare le nostre posizioni. Sebbene possa esserci qualche difficoltà nel dialogo o nell’accettare le loro prospettive, vedere il loro contributo come una benedizione anziché una fonte di sofferenza ci permette di evitare di chiuderci nel “si è sempre fatto così” e ci apre a nuove possibilità di crescita nella nostra comunità ecclesiale.
Don Leonardo – Il mio punto di vista potrebbe sembrare un po’ divergente, ma credo che sia parte integrante della discussione. Nonostante non disponga di dati precisi su come i giovani cristiani reagiscano, ho l’impressione che siano sopraffatti, specialmente dalle parole e dagli eventi citati. Ho notato che i nostri ragazzi sembrano stanchi di sentirsi dire cosa pensare o fare, anche se le parole sono valide, sembra mancare il rispetto per le loro esperienze di vita. I movimenti e le tematiche come l’ecologia o l’accoglienza, pur importanti, sembrano limitare la libertà di espressione dei giovani, che si trovano obbligati a seguire schemi prestabiliti senza poter esprimere liberamente le proprie opinioni. Inoltre, in certi contesti ecclesiali e sociali, i giovani sembrano dover chinare la testa alla retorica prevalente anziché esprimere i loro veri sentimenti e pensieri o problemi[2]. Questo mi preoccupa perché significa che la loro libertà di espressione è limitata, anche nei momenti di difficoltà o di sofferenza. C’è una pressione affinché tutto ciò che fanno sia motivato da un senso di carità o amore per gli altri, senza poter esprimere liberamente le proprie emozioni o opinioni. In questo modo, si rischia di costringere i giovani a conformarsi a uno standard sociale o ecclesiale anziché incoraggiarli a sviluppare un pensiero critico e autonomo.
Cosa avete in programma per il futuro? Pensate che il dialogo sul Vangelo all’interno delle famiglie possa essere incentivato in tempi di crisi di umanità? Se sì, come?
Don Fabiano – Per il futuro, sarebbe bello promuovere la creazione di spazi dedicati alle famiglie per condividere e approfondire il dialogo sul Vangelo. Penso che sia essenziale offrire opportunità per il rinnovamento spirituale e la crescita comunitaria, specialmente in periodi di crisi e incertezza. Attraverso incontri regolari e momenti di riflessione condivisa, spero si possa riuscire a incentivare un dialogo aperto e significativo all’interno delle famiglie, contribuendo così alla costruzione di legami più forti e alla crescita spirituale.
Don Alberto – La domanda sul come mi spaventa un po’, perché se avessimo la risposta, molti dei nostri problemi sarebbero risolti. Sono convinto che dobbiamo continuare ad ascoltare, prima di tutto capendo i bisogni delle famiglie. È importante che, come Chiesa, desideriamo portare il Vangelo, ma dobbiamo prima essere umani. Forse l’umanità è sempre stata in crisi, ma oggi le famiglie affrontano una complessità unica. Dobbiamo trovare modi per inserirci e creare piccole oasi per incontrare il Vangelo, come diceva Don Fabiano. Penso ai genitori che vogliono approfondire la fede: quando lo fanno? Le possibilità ci sono, ma devono essere scelte, accettando che mettere il Vangelo al centro è impegnativo. Non è solo mangiare insieme e chiacchierare, ma mettersi là, con il Vangelo al centro, e vedere cosa ha da dire, anche se non sempre è facile accettarlo. Per il futuro, penso che il tempo dei programmi a lungo termine sia finito. Bisogna costruire al momento, leggendo i momenti e agendo di conseguenza. Le iniziative migliori spesso nascono così, condividendo e provando. Dobbiamo fare tanti tentativi senza paura di sbagliare. Se qualcosa non funziona, non è un fallimento, è stato solo un tentativo. Forse verrà ripreso in futuro. Dobbiamo avere il coraggio di provare, con fiducia e senza paura di sbagliare.
Don Leonardo – Concordo pienamente. Se vogliamo intraprendere un cammino per le famiglie, dobbiamo adottare uno stile familiare, come hanno detto Alberto e Fabiano. Questo stile deve essere più occasionale ma non per questo banale, più complesso e meno focalizzato su programmi, obiettivi o progetti specifici. È importante che la dimensione pastorale della chiesa sia più attenta alle esigenze delle persone, seguendole dove vanno. Un buon pastore, pur guidando il gregge, deve anche essere disposto a seguirlo. Personalmente, ho trovato che i momenti di dialogo informale con le famiglie siano estremamente preziosi, anche se comportano una certa disorganizzazione nella mia routine. Ritengo che le parrocchie debbano essere aperte a questa conversione verso un approccio più dinamico, meno rigido ma più efficace.
Che cos’è il “timore clericale”? L’avete mai percepito?
Don Fabiano – Personalmente, il timore clericale lo riconosco in me stesso, nel timore di diventare clericale, ossia di prendere decisioni unilateralmente senza tener conto delle opinioni altrui. Tuttavia, non credo di manifestare questo atteggiamento.
Don Alberto – Anche io l’ho declinato come Don Fabiano. Mi preoccuperebbe se qualcuno all’interno della nostra comunità pensasse: “Non posso parlare con lui perché è un prete e non può capire”. Credo che l’ascolto di tutti, compreso quello di chi vive la vita di un prete, sia prezioso. Personalmente, non ritengo di non capire nulla delle dinamiche familiari o dell’educazione dei figli solo perché non ho una famiglia mia o figli. Allo stesso modo, non credo che nessuno possa comprendere la mia esperienza come prete solo perché non lo è. Sono grato quando le persone mi danno consigli e suggerimenti su come operare nella comunità. Anche se sono nuovo e mi confronto con volontari che hanno anni di esperienza, apprezzo quando mi guidano su cosa fare o su cosa evitare. Tuttavia, mi sento libero di condividere con loro ciò che vedo come il miglior percorso per la comunità. In definitiva, credo che lavorando insieme, preti e laici, possiamo estrarre significato dal Vangelo e vivere secondo i suoi principi. Ognuno contribuisce con le proprie esperienze, arricchendo così tutti.
Don Leonardo – Il concetto di “timore clericale” ha diverse sfaccettature, dipendendo da chi lo esprime e in che modo. A volte, non si riferisce solo al clero, ma viene utilizzato come termine generico per indicare un gruppo ristretto che detiene il potere. Personalmente, non credo che questo pericolo sia così diffuso nella nostra realtà. Tuttavia, comprendo la difficoltà nel percepire il presbitero come parte del popolo di Dio che cammina verso il Signore, piuttosto che qualcuno al di fuori del contesto. Mi dispiace quando qualcuno mi considera estraneo alla realtà, perché, anche se potrei non capire tutto, come chiunque altro, non sono isolato da determinati contesti. Inoltre, non ho mai interpretato il ruolo del prete come quello di un insegnante che detiene tutte le conoscenze. Nella mia esperienza di 15 anni come prete, ho notato una tendenza nella nostra comunità a considerare il prete come una figura decisiva, anche se personalmente non ho mai dato troppa importanza al ruolo del prete. Talvolta, le persone potrebbero non parlare liberamente con il prete, ma è importante per me ricevere feedback sinceri, anche se possono essere rimproveri pacifici, per migliorare le relazioni.
In tempi di crisi e divisioni nella Chiesa, c’è chi dice che “Cristo bussa alla porta della Chiesa da dentro”. Da cosa vuole uscire, per andare dove?
Don Leonardo -Rispondo distinguendo due cose: ci sono certamente istituzioni ecclesiastiche che devono cambiare, e mi piacerebbe essere parte di questo cambiamento con umiltà e determinazione. Tuttavia, Cristo bussa sempre da fuori, non da dentro . Dire che il Signore è dentro, è dire il Maestro interiore. Teresa Davila direbbe che è dentro. Ma in questa frase specifica, visto che richiama l’Apocalisse, il Signore bussa da fuori alla porta della sua Chiesa, perché la Chiesa è la sua Sposa e spetta a noi aprire la porta a Lui. Aprire la porta potrebbe implicare cambiare certi stili e modalità, come menzionato precedentemente. Ma è importante ricordare che il Signore è al di fuori della sua Chiesa. Non siamo così potenti da averlo rinchiuso, bensì forse siamo stati abbastanza sciocchi da lasciarlo fuori ancora una volta. È bene accoglierlo, ma è importante comprendere che il Signore è il Signore, e la Chiesa non è la fonte del male. Questa prospettiva sembra un po’ antiquata. Tuttavia, se devo esprimerla come mia opinione definitiva, è necessario cambiare molte cose e seguire semplicemente il Maestro, il quale bussa ancora una volta dall’esterno. Il Signore non è imprigionato dentro di noi; è ancora il Signore della sua Chiesa.
Don Alberto – Su questa questione, non avevo considerato il riferimento all’Apocalisse, che è un’immagine molto suggestiva. La mia risposta alla seconda domanda è stata piuttosto diretta: da cosa vuole uscire per andare dove? Certamente non vuole abbandonare la Chiesa, poiché la Chiesa gli appartiene. Non mi considero né tradizionalista, poiché ho combattuto abbastanza contro tale tendenza, né progressista nel senso di voler eliminare l’importanza della Chiesa. La Chiesa è la Chiesa di Gesù Cristo o non è affatto Chiesa. Perciò, penso che dovremmo ascoltare il Signore e seguirlo dove ci guida.
Secondo me, il termine “Chiesa”, nella sua etimologia, indica la casa tra le case, il luogo in cui il Signore vuole rimanere. Egli desidera continuare a essere presente nella vita delle persone e vuole che la sua Chiesa rimanga ancorata alla vita delle persone. Non credo che Egli voglia andare altrove, ma ci sta chiedendo di rimanere al centro della vita della gente.
Questo significa non cercare una forma accademica di Chiesa. Non dovremmo limitarci a una chiesa per gli intellettuali, lasciando che altri si occupino degli altri. Noi dobbiamo essere presenti accanto alla gente, perché la Chiesa è proprio questo. Penso che questo sia ciò che il Signore ci sta chiedendo. Quanto a come farlo, dobbiamo ascoltare, pregare e discernere, ma sicuramente non vuole che ci allontaniamo.
Don Fabiano – Sulla porta della nostra chiesa parrocchiale c’è la statua del Cristo risorto, con la croce dorata in mano. Questa statua ha due caratteristiche distintive. La prima è che è coperta di polvere, visibile dall’altare. Ma cosa vuole Cristo quando chiede di rimuovere la polvere? Non tanto dalla statua, ma dalla nostra relazione con Lui!
La seconda caratteristica è che la croce, con il Cristo risorto, guarda verso l’altare, assistendoci durante le celebrazioni. Guarda noi, che ci rivolgiamo verso di lui. A volte, è bello immaginare il Cristo girarsi e sapere che Egli guarda non solo verso di noi, ma anche verso le case, il luogo in cui viviamo, la terra stessa. Con il suo sguardo, possiamo ritrovarlo dentro di noi e vedere i segni della sua presenza continua, come se stesse ancora lì, bussando alla porta, come descritto nell’Apocalisse.
[1] Tomáš Halík, Un tempo per piantare e un tempo per sradicare, Quaresima e Pasqua di un’epoca inquieta; ed. Vita e pensiero, 2024
[2] cfr: Matteo Lancini, Sii te stesso a modo mio. Essere adolescenti nell’epoca della fragilità adulta; Raffaello Cortina Editore, 2023