XXV di professione religiosa per le nostre suore clarisse: Miriam e Grazia Maria

A cura di Beppe Bonfanti

Suor Grazia Maria ha festeggiato il 25.mo della sua professione religiosa nell’ottobre 2015, mentre suor Miriam festeggia il suo 25.mo a novembre di quest’anno. Nate a Seriate, hanno abbracciato la vita di clausura delle Clarisse.

Come si svolgono i momenti di festa in clausura?

L’Eucarestia è il cuore di ogni momento di festa nella quale ringraziare per i doni ricevuti, in questa occasione per quello del nostro 25° di professione. Poi le sorelle preparano e animano un momento di festa con canti, recital o giochi e offrono alle  festeggiate dei doni fatti con le loro mani, che dicono le ricchezze dei talenti e della creatività presente nella nostra fraternità.

Vi porgo la domanda di due adolescenti spigliate di Seriate che vi dipingerebbero come astronaute su Giove: “Ma non vi stancate mai di stare tutti i giorni chiuse dentro qui?”

Se ci stancassimo saremmo già altrove. Certo, ogni tanto ci viene il desiderio di una visita in famiglia o di bella passeggiata in montagna … ma la chiamata a questa forma di vita ha in sé la grazia per viverla e viverla con gioia anche nelle sue limitazioni.

Come si incrocia la vostra storia personale con quella di questo monastero e dell’antico ordine monacale delle clarisse? 

Nella nostra ricerca personale di un senso alla vita e della vocazione  aver incontrato queste sorelle che vivono la forma di  vita ispirata a santa Chiara e san Francesco di Assisi, è stato dare voce e volto a ciò che di profondo stavamo cercando, la risposta all’anelito del nostro cuore.

Cosa vi ha spinto a fare questa scelta, cosa rievocate della vostra  professione religiosa  di 25 anni fa  e quali emozioni vi suscitano queste “nozze d’argento”, se così le possiamo chiamare?

La vocazione è sempre risposta a Dio che ci ama e per grazia ci aiuta a vivere e a rimanere alla sua sequela.  Dopo 25 anni la consapevolezza che lui è fedele  e ha abbracciato con la sua misericordia le nostre esistenze donandoci di rimanere alla sua sequela, fa nascere il rendimento di grazie per il molto ricevuto in tutto questo tempo.

Vi manca la Seriate dei vostri primi passi in convento e, oltre alla vostra testimonianza che vediamo, quale messaggio di fede dareste ai seriatesi di oggi?

Quello che abbiamo vissuto nella nostra comunità è stato un dono grande che, assieme ad altri, ha fatto nascere in noi il desiderio di una vita cristiana autentica,  di una fede incarnata nella vita. Se siamo qui è anche per l’esperienza di vita parrocchiale e fraterna sperimentata nell’oratorio e nella vita della comunità cristiana e civile del nostre paese che ha  accresciuto la nostra fede e il desiderio di metterci a servizio degli altri nella modalità che il Signore ci ha chiesto. L’invito che vorremmo rivolgere è di riscoprire la bellezza della propria chiamata alla vita cristiana, la bellezza di un vangelo vissuto in famiglia, sul lavoro, nei vari luoghi di incontro … l’amore di un Dio che per noi ha dato la sua vita,  ci vuole felici e capaci di un amore e una dedizione verso ogni nostro fratello.

Vocazione religiosa, per molti, è come dire qualcosa di astratto. Non è evidentemente così. Ma Gesù come chiama? Dove e con quali esperienze?

La chiamata del Signore non avviene  per qualche messaggio strano dal cielo. Dio è una brezza leggera, dice la scrittura. Nasce da un ascolto umile della propria vita, del proprio cuore, dei desideri più veri che ci abitano,  inquietano e pongono domande sul senso della vita, sulla felicità che tutti desideriamo e cerchiamo. Matura dentro un ascolto della Parola, nella preghiera, in un confronto con un fratello o una sorella più grande nella fede che aiuta a discernere i segni della sua presenza; ma anche in un impegno serio e responsabile  del  proprio lavoro o dello studio, del tempo libero, delle amicizie o dei legami affettivi. Il Signore è più intimo a noi di noi stessi e più dentro la nostra vita di quanto pensiamo o immaginiamo. Dobbiamo imparare ad ascoltare.

Come hanno reagito le famiglie alla vostra chiamata?

Con la fatica ad accogliere per una vocazione un po’ misteriosa e così particolare e, con il timore di non poterci più vedere. Poi, conoscendo la nostra vita, la fraternità, e vedendoci contente, si sono rasserenati e ora siamo tutti una grande famiglia.

E’ vero che nei monasteri di clausura si risente meno della crisi vocazionale e che la scelta della vita contemplativa proviene prevalentemente dalle città, vi è più consapevolezza, forza di realizzazione e contrasto alle avversità?

La crisi vocazionale coinvolge ormai tutte le forme di vita consacrata. Non ci sembra  che la scelta di vita contemplativa provenga prevalentemente dalle città. Oggi nelle scelte di vita consacrata o sacerdotale vi è un grado di consapevolezza maggiore poiché si è più motivati, le possibilità di scelte sono molteplici, il grado di autonomia e indipendenza è maggiore.

Andavate volentieri a catechismo?  Quali sono state le vostre palestre di fede?

Personalmente io, suor Miriam, non andavo molto volentieri a catechismo: vi partecipavo  perché la mia famiglia lo voleva. E la ringrazio perché ha scelto il bene per me. In famiglia ho respirato una fede semplice, ma autentica e ricca di umanità e carità che è stato per me un esempio molto grande. Poi la formazione in parrocchia, l’esperienza in oratorio, i vari corsi, esercizi spirituali o ritiri, esperienze ad Assisi sui luoghi di Francesco e Chiara. Molto importante il lavoro con persone diversamente abili e nel campo sociale e nel volontariato.

Voi avete scelto il modello di vita contemplativa, cioè di Maria, quale consiglio dareste a chi laicamente sceglie il modello di Marta?

Distinguere la vita contemplativa e attiva è un modello ormai superato. Tutti i cristiani in virtù dell’appartenenza a Cristo nel Battesimo, sono chiamati ad essere contemplativi, inseriti in Cristo, amanti di Cristo. Poi a qualcuno Lui chiede di ritirarsi sul monte per vivere in modo più radicale questo legame di intimità. La sfida è proprio questa per il laico di oggi: riscoprire la propria chiamata battesimale,  una vita in Cristo fatta di preghiera, di ascolto della Parola, di fedeltà alla propria vocazione matrimoniale, di responsabilità sul lavoro, di legalità … Paolo VI diceva che il cristiano di domani o sarà un mistico o non sarà più. Le sfide del mondo di oggi ci chiedono una trasparenza e una credibilità maggiore nel nostro essere cristiani.

E’ ancora possibile un dialogo con la società contemporanea usando il silenzio, l’ascolto e la preghiera?

La società contemporanea nelle sue istanze e contraddizioni ha una forte  domanda di interiorità. L’accoglienza nei monasteri di persone che ricercano spazi di silenzio e preghiera confermano questa esigenza, come anche il bisogno di incontrare persone capaci di ascolto alle quale consegnare la propria esistenza, la ricerca di senso e di Dio, l’aiuto nel discernimento delle piccole o grandi scelte.

Quali le figure più care a voi negli affreschi o tele di arte antica o moderna qui presenti che vi ispirano o vi hanno ispirato in certi momenti alla riflessione e alla preghiera?

Le icone di Gesù o della madre di Dio, e il crocifisso di san Damiano, nel quale è descritta  l’opera della salvezza.

C’è grande confusione e incomprensione sui media e sui social nell’interpretare la scelta di vita religiosa  in correlazione con aspetti della vita affettiva. Come spieghereste ciò che vi rende realmente felici?

Crediamo che la confusione sia anche legata alla perdita e alla fatica di vivere relazioni affettive profonde e mature, non legate solo alla sfera sessuale. Ciò che rende felici è l’appartenenza a Qualcuno,  e nella vita consacrata questo si gioca in una relazione con il Signore … Parlavamo prima di una chiamata: quando Dio chiama dona anche la forza di vivere la propria vocazione.

Poco tempo fa ho letto da qualche parte che la meditazione sembra essere addirittura una “via per riabilitare i detenuti”.  Molto tempo fa, nel 1941, su L’Eco compariva un bellissimo articolo intitolato “L’ergastolano e la monaca”.  In questa dicotomia, quale importanza ha la sfera spirituale, l’amore di Dio, nelle piaghe dell’umanità? 

L’esperienza dell’amore di Dio, quando è autentica, è una realtà incarnata che tocca e abbraccia tutta la sfera dell’umano. Gesù nella sua Pasqua ci ha fatto dono della salvezza, della redenzione, della possibilità di una rinascita in ogni condizione nella quale ci troviamo, fosse anche la più estranea e lontana da Lui. La misericordia di Dio che abbiamo celebrato in questo anno, racconta il vero volto di Dio che mai smette di amare e perdonare. Questo è scandalo per quanti dividono il mondo in buoni e cattivi, in santi e peccatori. Tutti abbiamo bisogno di essere continuamente perdonati. Siamo tutti peccatori amati e salvati.

Qual’è il vostro rapporto con la natura? Anche la liturgia delle ore sembra richiamare il ritmo della natura e  il microcosmo del convento è un’isola di contemplazione nel caos della città. Questo può essere un modello per salvare il mondo?

Il nostro monastero ai margini della città risente del rumore e dell’inquinamento. Abbiamo dei chiostri e un orto molto grande che coltiviamo e che ci permettono un contatto con la natura. Pur utilizzando le nuove tecnologie, diamo anche molto spazio al lavoro manuale. Recuperare la dimensione di una vita più semplice contro lo stress quotidiano, può far bene a tutti.

Nuove tecnologie. Nell’atomizzarsi della comunicazione, voi siete il volto opposto della medaglia, una sorta di centrifuga dell’anima, mentre fuori tutto si sparpaglia. Che cosa è il “prudente discernimento”?

Il discernimento è l’arte del valutare ciò che è buono in sé e per me oggi. Questo esige un sano ascolto di sé, della propria identità e vocazione, per saper utilizzare dei mezzi, delle cose in sé buone e utili, per un bene. Non sono le cose o i mezzi che governano la nostra vita, ma la libertà e responsabilità di scegliere e valutare cosa farne e come utilizzarli. I monaci non demonizzano ciò che è del mondo, che è frutto dell’intelligenza dell’uomo, ma accettano la sfida di usarli con prudente discernimento

 Cosa vale la preghiera nel tempo passato e ancora oggi? 

Se c’è una realtà che non si può valutare è la preghiera. L’orante è colui che si pone davanti a Dio con l’atteggiamento dei poveri che si affidano a lui con tutta la loro vita. Pensiamo alla ricchezza della  preghiera dei salmi e a come essi contengano tutte le gamme di sentimenti umani, di richieste ecc. Essi dicono come l’uomo ha in sé questo bisogno di rivolgersi a Dio nelle circostanze della propria esistenza. Se pensiamo ad alcune pratiche di preghiera certamente oggi sono in disuso e assistiamo a una disaffezione nella recita del rosario o della via crucis, e anche le presenze alla messa sembrano diminuire. Però crediamo che solo il Signore conosca il cuore dell’uomo dal quale può scaturire una preghiera autentica anche là dove sembra non essere presente secondo i nostri criteri. Pensiamo alla parabola evangelica del pubblicano e del fariseo. Dio guarda la sincerità del cuore.

Osservo, girando la città, una enorme insensibilità al “per sempre”, da anni ormai inconcepibile persino nella famiglia, e che però voi intendete testimoniare con eroismo e bellezza. Vi pesa questa solitudine o è il caso di dire “Nada te turbe”?

La solitudine è parte costitutiva del nostro essere creature, poiché rimaniamo un mistero a noi stessi e ancor più agli altri. Anche la relazione umanamente più riuscita ha in sé questa dimensione. Un grande filosofo come Maritain affermava che più cresceva la sua comunione con la moglie e il gruppo di amici che condividevano i suoi ideali, più aumentava anche la loro solitudine. La realtà è che noi fuggiamo tutto ciò che crea disagio e lo riempiamo di tanto altro, ma spostiamo solo il problema. Anche Dio non colma la solitudine, la lascia come uno spazio vuoto che è da portare, abbracciare e non rifuggire o colmare. Lui è dentro questa solitudine. Non solo, lui come uomo ha provato la solitudine. Pensiamo ad esempio al momento del Geztemani. Solitudine non è isolamento, ma realtà necessaria alla piena comunione. Occorre avere il coraggio di abitarla e farla diventare sorella.

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DOMANDE SULL’ORGANIZZAZIONE DEL MONASTERO

Nome: Clarisse – sorelle povere di Santa Chiara.

Luogo: Bergamo, via Lunga, 20.

Quante siete? Siamo 20 sorelle.

Età media?45 anni.

Quante vocazioni? In comunità ci sono due sorelle di voti temporanee. Alcune giovani sono in un cammino di discernimento.

Quali mestieri facevano prima le novizie? Insegnanti, impiegate, infermiere, operaie.

Quale il motto? Il saluto di pace di san Francesco: “pace e bene”.

A quali studi vi dedicate? Non sono studi sistematici ma approfondimenti di bibbia, liturgia, francescanesimo, catechesi, spiritualità.

Quali lavori? Lavori di manutenzione del monastero, lavori artigianali con il cuoio, pergamene dipinte e scritte, icone scritte e incollate, ceri decorati, corone, preparazione di articoli, veglie di preghiera o lectio divine,  incontri con gruppi di oratori, parrocchie e scuole, ecc.

Giochi? Da tavolo, quiz, carte, tamburello.

Avete un padre spirituale, prete, confessore? Chi lo desidera può avere un padre spirituale, poi ci sono i confessori.

Quali sono i contatti con il fuori? Accogliamo singoli in foresteria per momenti di preghiera e riti, gruppi per testimonianze sulla nostra vita o per incontri a carattere spirituale; incontriamo fratelli e sorelle in parlatorio. Leggiamo i giornali, abbiamo internet.

Quale l’ultimo film visto su grande schermo? Uomini di Dio.

Il più recente libro? Il sole dentro, di Carlo Maria Martini.

Che funzione ha la vita comunitaria? La vita comunitaria è per noi parte importante e fondamentale della vocazione, poiché Francesco e Chiara hanno voluto delle sorelle e dei fratelli che insieme seguissero il Signore, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio, in castità e in clausura.

Come è la dinamica interna, la gestione comunitaria è una sorta di sistema democratico antesignano?

All’interno della fraternità ci sono alcune sorelle che hanno un servizio particolare per il bene comune: ogni tre anni sono elette la madre e il consiglio che ha il compito di aiutare la madre nel discernimento comunitario. Ma le decisioni vengono prese tutte comunitariamente in quello che è chiamato il capitolo, cioè l’insieme di tutte le sorelle, poiché tutte siamo responsabili del cammino della fraternità, dentro servizi, incarichi e uffici diversi.

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